L’Odissea, come l’Iliade, come la Divina commedia, come i Promessi sposi: si studiano (studiavano?) a scuola, obbligatorio. Obbligatorio e controproducente, in genere, come tutte le cose se non ben spiegate, coinvolte, amate.
Mi ricordai della storia di Omero tanti anni or sono.
Andai a cercarne qualcosa, mi parve la mia storia. E lo era, è la storia dell’uomo. Dell’uomo onesto, quasi direi, che mai si stanca della ricerca, mai termina, si acquieta, si siede, si rilassa. Sempre in una tensione interiore al più, al vero.
Quell’uomo ero io, molto meno ardimentoso certamente, ma nel mio piccolo una qualche ricerca esistenziale andava avanti.
Ho dovuto oltrepassare le Colonne d’Ercole anche io. In mare aperto, e mai avrei immaginato. La paura c’era, l’ansia, il terrore di non ritrovare la bussola per la strada di casa. Ma dovevo andare. Dovevo trovare l’uomo che stava in me, quasi dormiente, in attesa di sbocciare a vita, nascere nuovo.
Avevo le mie certezze, ero saturo di cose buone che evidentemente non bastavano. Una inquietudine sottile da anni spingeva sempre più in là. Dolorosa, inimmaginabile, non raccontabile.
Sono andato oltre le Colonne. Ho conosciuto il mare di fuori (come in Sardegna dicono del mare ad ovest), i flutti, le ondate senza posa, la tempesta del cuore.
Evitabile? Non so, questa è la mia storia, mia e di tanti.
Era forse necessario per trovare l’uomo in sé, la propria umanità che stava soffocando, l’uomo che deve essere pieno e vero per essere redento ad immagine del Figlio: vero uomo.
Dopo tanto girovagare, con sirene dappertutto, con la bussola che puntava ovunque lontano, è accaduto l’atteso ma quasi oramai insperato più. La bussola ha ripreso a funzionare. Ovvero: la classica “botta in testa” che permette di ritrovarsi, in sé. Ritrovarsi e ritrovare il Cielo che stava dentro sotto stratificazioni di “altro”.
Dicevo di recente ad una cara amica che la mia vita di oggi, solo, in questo eremo sperso nella nebbia e nel gelo della campagna umbra invernale è ben altro da tanti anni fa, con una famiglia bella, una casa bella, invidiati da tanti. Ma dentro covava il dolore, i problemi irrisolti, la mancanza del senso.
Ieri siamo stati a fare i baby sitter ai nipotini. Sei ore, interrotte solo dal rientro di papà e mamma per cena e qualche gioco coi piccoli.
Nella stanza dei giochi, attrezzata proprio per loro due, accade un fatto solito, bellissimo, ma che ancora non avevo “fotografato” in pieno.
Il piccolo Nenno, ora fa dieci mesi, gattona gattona e sempre verso la porta se ne fugge. Se è chiusa si arrabbia, tenta di aprirla. Se è aperta se ne va “oltre”, deve oltrepassare le sue Colonne d’Ercole, novello Ulisse. Ha capito gli spazi e deve scoprire, già quel poco mondo tutto suo non gli basta, ed è un mondo bello, a sua misura.
Era da piangere ma non ne avevo il tempo, occorreva corrergli dietro e badarlo, da bravo nonno…
(foto mia, Biennale Venezia 2012)
domenica 8 dicembre 2013
domenica 1 dicembre 2013
Fuori!
Scrivo a caldo. Anche se fuori è zero gradi, e siamo nella nebbia assoluta, e comunque in casa non è proprio caldissimo. Ho avuto la fortuna, grande, di partecipare ad un convegno di due giorni ad Assisi. Il tema: “Custodire l’umanità, verso le periferie esistenziali”. Me ne sono scaturiti spunti, riflessioni, verifiche, condivisioni, lacrime. Tento di raccontarvi qualcosa, a caldo. E comincio dalle lacrime.
C'era una mostra di fotografie, anche. Ne son rimasto più che affascinato. Poi è intervenuta l'autrice, Monika Bulaj. Sentirla e captare il suo amore per l'umanità è stato un tutt'uno con la mia commozione. La fotografia ce l'ho nel sangue, e lei pareva l'incarnazione dei miei sogni di fotografo! Non ho potuto non acquistare un suo libro: Genti di Dio (il libri fotografici costano... e quel che mi ha convinto è stato il risuonarmi dentro parole usuali di mio figlio: "se non investi in cultura, in cosa investi?" ). Purtroppo non son riuscito ad abbracciarla e ringraziarla.
Quando a fine giugno sono andato a Taiwan per il matrimonio di mio figlio… ero pronto a tutto, dall’altra parte del globo. Ma poi come sempre accade qualcosa di più, di imprevedibile. A Taipei, una popolosa città orientale in cui i cristiani sono una netta minoranza, nostre amiche hanno individuato una chiesa ove poter celebrare le nozze. Una chiesetta con una particolarità, pare, unica al mondo. Chissà poi perché, cosa muoveva l’architetto… insomma: il Crocifisso sta fuori dalla chiesa, ovvero forse nel posto naturale, in una teorica abside che in realtà non c‘è. La chiesa termina prima, con una vetrata. Da dentro lo si vede, lui da fuori guarda l’interno mentre abbraccia la chiesa e tutto. E poi la vetrata, la vedete nella foto della cerimonia, inizialmente era normale, liscia. Poi è stata trovata in questo modo, così “lavorata”, cristallizzata. Forse un terremoto, forse una pietra, forse reazione del vetro. Fatto sta che ora il tutto è davvero più bello! Sembra un vedere attraverso occhi in lacrime, in una situazione di disfacimento. Mi piace molto. Lì, fuori dalla chiesa, sta ad abbracciare davvero l’umanità tutta. Siamo in Asia, e l’umanità è proprio tanta, bella, giovane.
In questi due giorni ad Assisi mi sono inizialmente e naturalmente trovato vicino ai miei amici: eravamo un bel gruppo, ma qualcosa mi stonava. Ad un certo punto un intervento ha finito di schiudermi gli occhi proprio su quel che vivevo: “Nella modernità l’uomo è fuori, fuori dalla casa del Padre. Come il figliol prodigo…” che sta fuori, lontano, a dilapidare sé e i suoi averi. E il Padre attende: nel dolore, ma attende.
“Esci dalla tua terra!” dispone Dio nella Bibbia. Ovvero: esci dalla tua zona protetta, in cui stai tanto bene. Il separato ci giunge sempre costretto, dal coniuge, dalla legge, dalle circostanze. Ma poi solo importa che diventi amore, che divenga proiezione all’esterno di sé. Questa infatti l’operazione che occorre: uscire fuori, andare nelle periferie esistenziali a vivere la vita degli uomini, ad abbracciare l’umanità da fuori, che da dentro non è possibile: come custodire, accudire, amare… con i muri di mezzo?
Credo di aver già scritto del mio deserto durato venti anni. Un deserto che è stato “agli ultimi confini della terra”, pur che non mi sono quasi mosso geograficamente. Ne ho pubblicamente ringraziato Dio e pure la mia sposa, seppur inconsapevole.
Si avvicina Natale, di nuovo. Mia madre partì alla vigilia del Natale 1996. L'anno dopo, in pieno deserto esistenziale (ma il meglio doveva ancora arrivare!), con questo ulteriore strappo nel cuore, da cose realmente vissute alla stazione Tiburtina a Roma, mi nacque il racconto Christmas. A rileggerlo ora lo trovo molto acerbo nello stile, ma mi stupiscono i contenuti. C'era scritto tutto, o quasi. Questo uscire dal "gruppo", liberi, respirare a pieni polmoni...
Mi vien da sorridere, penso a “San Paolo fuori le mura”, la basilica di Roma. Proprio lui, fuori dalle mura? Coincidenza, per l’uomo che veniva da lontano, arrivava dopo, e parlava ai Gentili, parlava la lingua degli uomini?
E in fondo in fondo questa mia famiglia così martoriata, come le tante e troppe dei separati, nel suo stare “anomala”, fuori dalle mura, forse sta esattamente dove pensa Papa Francesco.
Infatti il Golgota stava proprio fuori Gerusalemme. E il Crocifisso solo lì può stare.
C'era una mostra di fotografie, anche. Ne son rimasto più che affascinato. Poi è intervenuta l'autrice, Monika Bulaj. Sentirla e captare il suo amore per l'umanità è stato un tutt'uno con la mia commozione. La fotografia ce l'ho nel sangue, e lei pareva l'incarnazione dei miei sogni di fotografo! Non ho potuto non acquistare un suo libro: Genti di Dio (il libri fotografici costano... e quel che mi ha convinto è stato il risuonarmi dentro parole usuali di mio figlio: "se non investi in cultura, in cosa investi?" ). Purtroppo non son riuscito ad abbracciarla e ringraziarla.
Quando a fine giugno sono andato a Taiwan per il matrimonio di mio figlio… ero pronto a tutto, dall’altra parte del globo. Ma poi come sempre accade qualcosa di più, di imprevedibile. A Taipei, una popolosa città orientale in cui i cristiani sono una netta minoranza, nostre amiche hanno individuato una chiesa ove poter celebrare le nozze. Una chiesetta con una particolarità, pare, unica al mondo. Chissà poi perché, cosa muoveva l’architetto… insomma: il Crocifisso sta fuori dalla chiesa, ovvero forse nel posto naturale, in una teorica abside che in realtà non c‘è. La chiesa termina prima, con una vetrata. Da dentro lo si vede, lui da fuori guarda l’interno mentre abbraccia la chiesa e tutto. E poi la vetrata, la vedete nella foto della cerimonia, inizialmente era normale, liscia. Poi è stata trovata in questo modo, così “lavorata”, cristallizzata. Forse un terremoto, forse una pietra, forse reazione del vetro. Fatto sta che ora il tutto è davvero più bello! Sembra un vedere attraverso occhi in lacrime, in una situazione di disfacimento. Mi piace molto. Lì, fuori dalla chiesa, sta ad abbracciare davvero l’umanità tutta. Siamo in Asia, e l’umanità è proprio tanta, bella, giovane.
In questi due giorni ad Assisi mi sono inizialmente e naturalmente trovato vicino ai miei amici: eravamo un bel gruppo, ma qualcosa mi stonava. Ad un certo punto un intervento ha finito di schiudermi gli occhi proprio su quel che vivevo: “Nella modernità l’uomo è fuori, fuori dalla casa del Padre. Come il figliol prodigo…” che sta fuori, lontano, a dilapidare sé e i suoi averi. E il Padre attende: nel dolore, ma attende.
“Esci dalla tua terra!” dispone Dio nella Bibbia. Ovvero: esci dalla tua zona protetta, in cui stai tanto bene. Il separato ci giunge sempre costretto, dal coniuge, dalla legge, dalle circostanze. Ma poi solo importa che diventi amore, che divenga proiezione all’esterno di sé. Questa infatti l’operazione che occorre: uscire fuori, andare nelle periferie esistenziali a vivere la vita degli uomini, ad abbracciare l’umanità da fuori, che da dentro non è possibile: come custodire, accudire, amare… con i muri di mezzo?
Credo di aver già scritto del mio deserto durato venti anni. Un deserto che è stato “agli ultimi confini della terra”, pur che non mi sono quasi mosso geograficamente. Ne ho pubblicamente ringraziato Dio e pure la mia sposa, seppur inconsapevole.
Si avvicina Natale, di nuovo. Mia madre partì alla vigilia del Natale 1996. L'anno dopo, in pieno deserto esistenziale (ma il meglio doveva ancora arrivare!), con questo ulteriore strappo nel cuore, da cose realmente vissute alla stazione Tiburtina a Roma, mi nacque il racconto Christmas. A rileggerlo ora lo trovo molto acerbo nello stile, ma mi stupiscono i contenuti. C'era scritto tutto, o quasi. Questo uscire dal "gruppo", liberi, respirare a pieni polmoni...
Mi vien da sorridere, penso a “San Paolo fuori le mura”, la basilica di Roma. Proprio lui, fuori dalle mura? Coincidenza, per l’uomo che veniva da lontano, arrivava dopo, e parlava ai Gentili, parlava la lingua degli uomini?
E in fondo in fondo questa mia famiglia così martoriata, come le tante e troppe dei separati, nel suo stare “anomala”, fuori dalle mura, forse sta esattamente dove pensa Papa Francesco.
Infatti il Golgota stava proprio fuori Gerusalemme. E il Crocifisso solo lì può stare.
domenica 17 novembre 2013
Il dettaglio
Nei giorni scorsi, dopo la spesa al supermarket son passato un attimo da mia figlia, portando qualcosa di buono per Tio, il nipotino “grande”, credo fossero delle tavolette di Kinder. Lui non le aveva mai viste ma ha capito subito che era roba buona e abbiamo imparato insieme a mangiarle. Gli ho consigliato di mangiarle col pane, come sovente faccio io con la cioccolata, come avrebbe fatto mio padre. Lui ha decisamente apprezzato: “Molto buono!”
Qualche sera dopo ho accompagnato lui e la mamma in biblioteca, si dovevano restituire dei libretti in prestito e sceglierne di nuovi. Aveva imparato la strada, è entrato spedito bypassando la segreteria… Poi abbiamo atteso insieme in macchina la mamma che era a fare delle commissioni. Avevo un giovane Pavarotti in Donizetti, “L’elisir d’amore”, che suonava di sottofondo. Pezzi corali, andanti, spiritosi. Ho alzato il volume, ho scimmiottato la direzione dell’orchestra, ho canticchiato al ritmo del disco… e lui si è divertito come non mai, ha preso a seguire il ritmo e canticchiare con me. E la mamma quando è tornata non capiva cosa stesse succedendo in macchina, si è trovata dentro una discoteca di lirica!
L’imprinting. Credo sia davvero importante, nella fase in cui una creatura è ancora un libro bianco tutto da scrivere. Con questi nipoti ho una consapevolezza nuova, diversa rispetto ai figli. È diversa la mia responsabilità, certamente. Ma soprattutto mi pare di essere io nuovo, arrivato (finalmente!) a non avere più le certezze della gioventù, ad avere occhi e cuore solo per le cose “altre”, quelle che magari da giovane paiono secondarie…
Mia figlia architetto, una volta terminata gli studi, mi ha donato alcuni dei suoi libri universitari più alla mano, alla portata anche di un neofita come me. Pian piano ci sto entrando dentro: se rinascessi mi piacerebbe essere architetto (insieme a diverse altre cose…)!
In un volume molto concentrato di storia dell’architettura moderna, che leggo saltando da Gaudì ad Aalto seguendo l’istinto del momento, proprio nell’ultima pagina trovo una “famosa” constatazione dell’architetto Mies van der Rohe: “Dio è nel dettaglio”.
Questo “dettaglio”, bellissimo, oltre che riferito alle “cose” create dall’Eterno o dall’uomo, mi piace tradurlo nel tempo. Dio è nel dettaglio temporale, ovvero nel momento presente.
In questi giorni che è arrivata la tramontana, che la luce in casa era meravigliosa, che il cuore urla e sente rispondersi “Non è bene che l’uomo sia solo!”, in questi giorni che la stanchezza è prepotente e sarebbe necessario un sano riposo… mi giunge il commento al post precedente di un ignoto (?) amico che mi lascia come centrato al cuore da una freccia scagliata con estrema perizia e saggezza:
“La tua "vittoria", Paolo, pure quando si manifesta dentro il dolore delle sconfitte, è questa apertura alla ricerca di un senso all'esistenza, la ricerca del Senso, e questo, anche se già nella risposta di fede, ha l'intelligenza del non ancora, ed è in questa santa incompletezza il fascino e l'attrattiva di questo tuo dire. Nella sua eco, s'incamminano in ordine sparso i tuoi lettori...”
Grazie, grazie davvero!
(foto mia, Biennale Venezia 2012)
Qualche sera dopo ho accompagnato lui e la mamma in biblioteca, si dovevano restituire dei libretti in prestito e sceglierne di nuovi. Aveva imparato la strada, è entrato spedito bypassando la segreteria… Poi abbiamo atteso insieme in macchina la mamma che era a fare delle commissioni. Avevo un giovane Pavarotti in Donizetti, “L’elisir d’amore”, che suonava di sottofondo. Pezzi corali, andanti, spiritosi. Ho alzato il volume, ho scimmiottato la direzione dell’orchestra, ho canticchiato al ritmo del disco… e lui si è divertito come non mai, ha preso a seguire il ritmo e canticchiare con me. E la mamma quando è tornata non capiva cosa stesse succedendo in macchina, si è trovata dentro una discoteca di lirica!
L’imprinting. Credo sia davvero importante, nella fase in cui una creatura è ancora un libro bianco tutto da scrivere. Con questi nipoti ho una consapevolezza nuova, diversa rispetto ai figli. È diversa la mia responsabilità, certamente. Ma soprattutto mi pare di essere io nuovo, arrivato (finalmente!) a non avere più le certezze della gioventù, ad avere occhi e cuore solo per le cose “altre”, quelle che magari da giovane paiono secondarie…
Mia figlia architetto, una volta terminata gli studi, mi ha donato alcuni dei suoi libri universitari più alla mano, alla portata anche di un neofita come me. Pian piano ci sto entrando dentro: se rinascessi mi piacerebbe essere architetto (insieme a diverse altre cose…)!
In un volume molto concentrato di storia dell’architettura moderna, che leggo saltando da Gaudì ad Aalto seguendo l’istinto del momento, proprio nell’ultima pagina trovo una “famosa” constatazione dell’architetto Mies van der Rohe: “Dio è nel dettaglio”.
Questo “dettaglio”, bellissimo, oltre che riferito alle “cose” create dall’Eterno o dall’uomo, mi piace tradurlo nel tempo. Dio è nel dettaglio temporale, ovvero nel momento presente.
In questi giorni che è arrivata la tramontana, che la luce in casa era meravigliosa, che il cuore urla e sente rispondersi “Non è bene che l’uomo sia solo!”, in questi giorni che la stanchezza è prepotente e sarebbe necessario un sano riposo… mi giunge il commento al post precedente di un ignoto (?) amico che mi lascia come centrato al cuore da una freccia scagliata con estrema perizia e saggezza:
“La tua "vittoria", Paolo, pure quando si manifesta dentro il dolore delle sconfitte, è questa apertura alla ricerca di un senso all'esistenza, la ricerca del Senso, e questo, anche se già nella risposta di fede, ha l'intelligenza del non ancora, ed è in questa santa incompletezza il fascino e l'attrattiva di questo tuo dire. Nella sua eco, s'incamminano in ordine sparso i tuoi lettori...”
Grazie, grazie davvero!
(foto mia, Biennale Venezia 2012)
giovedì 7 novembre 2013
E quelli chi sono?
Torno a casa che mi sento invecchiato di colpo, questa botta di ansia mi ha rubato anni. Sono stanco. Mi accorgo in un attimo che questo mio dolore è poca cosa dinanzi ai dolori immani dell’umanità, penso ai tanti bimbi che vivono e muoiono soli, nell’abbandono. Riesco a questo punto a pregare qualcosa, ad uscire dalla mia stasi.
In questi giorni ho fatto la consueta visita ai miei cari, nel piccolo cimitero di montagna in cui sono atteso, prima o poi. Un cimitero che sta crescendo a dismisura, non me ero ancora accorto. In poco tempo son riuscito a fare tante cose, forse troppe, che ero coi tempi stretti. Ma ho comunque imparato che non debbo crucciarmi più per quanto non riesco, e vorrei.
Il viaggio in solitudine, naturalmente. E quindi tanto da pensare: il punto della situazione.
Son contento, in questa fase della vita con pressioni fortissime da più fronti, fase delicata e di grande stanchezza. Come quando arrivi alla fine di una interminabile salita di montagna, e presumi, speri, ci sia un po’ di piano, mica tanto!, quanto basta per riprendere fiato e forze, che la vetta è ancora distante.
Certo, dieci anni fa non avrei scommesso un centesimo sulla mia sopravvivenza. Ma la mia (la nostra!) storia ha preso una piega inimmaginabile.
Son giunto a relativizzare il mio dolore, a contatto con tanti altrui: alcuni mi si dicono, altri li vedo o li intuisco, magari insospettabili, da reazioni bellicose, sgradevoli, volte a ferire. So che chi sta bene fa bene, non semina dolore, non ha bisogno di ferire per vivere. Pure capisco l’inadeguatezza di questo mio parlare di “dolore” del separato, dell’abbandonato: a volte ne ho quasi vergogna, al cospetto di realtà ben maggiori. Quasi verrebbe da fare una scala dei dolori, chi più chi meno. Una operazione sciocca, me ne accorgo. I dolori sono incommensurabili, impossibile farne una graduatoria. Ognuno ha e sa il suo, e tutti sono drammaticamente grandi, e appaiono invivibili. Qualcuno diceva che ogni croce è fatta a misura: credo sia vero.
Da tempo queste parole dell’Apocalisse paiono quasi toccarmi da vicino, anzi spero proprio di trovarmici coinvolto, quando sarà: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? … sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.“
Certo, non basta “la grande tribolazione”: tutti si soffre. Quel che piuttosto conta è attraversarla, rendendo candida la propria esistenze col sangue dell’Agnello. Qualunque essa sia stata, anzi!
Una canzone degli anni settanta cantava di uno che aspettava aspettava e poi… “ho cominciato a vivere forte / solo andando incontro alla morte”.
Il mio tempo è sempre meno, ed ecco il presente che mi torna prepotente: né passato, né futuro.
Adesso, solamente adesso.
(foto mia, Biennale Venezia 2012)
sabato 12 ottobre 2013
A tutti i soli (dedicato)
In un attimo di tregua, e di concentrazione, rileggo tante cose scritte e rimaste lì: queste righe sono di maggio, ma credo siano attuali sempre…
A chi si alza la mattina e si parla, e si racconta un sogno, una tristezza, una preoccupazione.
A chi andando al lavoro recita il Rosario da solo svolgendo entrambi i ruoli.
A chi trova intorno muri di solitudine e di dolore inscalfibile e si parla dentro magari pregando per coloro che sfogano il proprio dolore sulle persone vicine.
A chi si cucina per tre giorni, così fa prima e scalda tutto al microonde.
A chi pranza da solo e fa un brindisi con sé stesso con un bicchiere di buon vino locale.
A chi si lava i piatti in una frazione di secondo, che erano così pochi!
A chi si prepara un ottimo caffè espresso, amaro e doppio, magari con un pezzetto di cioccolato fondente ancor più amaro.
A chi fa spesa sempre per uno, pur prevedendo che potrebbe capitare qualche gradito ospite.
A chi fa la lavatrice non tanto spesso (vedi i piatti da lavare!)
A chi non ha televisione e vive molto meglio.
A chi si racconta della giornata dinanzi allo specchio, lavandosi i denti, sempre cercando un bilancio positivo.
A chi si addormenta la notte solo, in un letto matrimoniale sotto-utilizzato.
A chi dorme con la sana incoscienza dei figli di Dio.
Ma soprattutto dedicato:
A chi è solo che più solo non si può, che magari sopravvive inabissandosi in continue banali distrazioni - e riesce persino a non dare nell’occhio.
A chi ha raggiunto il fondo, gli ultimi confini, e sotto il peso del vissuto non ritrova la strada di sé, della propria esistenza vera.
A chi ha un mondo interiore - ricchissimo se frutto di solitario dolore - da esternare, da dare, e non sa a chi dire, e non sa come dare.
A volte ho la sensazione netta dell’immortalità nel presente.
(foto mia, Dolomiti bellunesi, estate 2013)
A chi si alza la mattina e si parla, e si racconta un sogno, una tristezza, una preoccupazione.
A chi andando al lavoro recita il Rosario da solo svolgendo entrambi i ruoli.
A chi trova intorno muri di solitudine e di dolore inscalfibile e si parla dentro magari pregando per coloro che sfogano il proprio dolore sulle persone vicine.
A chi si cucina per tre giorni, così fa prima e scalda tutto al microonde.
A chi pranza da solo e fa un brindisi con sé stesso con un bicchiere di buon vino locale.
A chi si lava i piatti in una frazione di secondo, che erano così pochi!
A chi si prepara un ottimo caffè espresso, amaro e doppio, magari con un pezzetto di cioccolato fondente ancor più amaro.
A chi fa spesa sempre per uno, pur prevedendo che potrebbe capitare qualche gradito ospite.
A chi fa la lavatrice non tanto spesso (vedi i piatti da lavare!)
A chi non ha televisione e vive molto meglio.
A chi si racconta della giornata dinanzi allo specchio, lavandosi i denti, sempre cercando un bilancio positivo.
A chi si addormenta la notte solo, in un letto matrimoniale sotto-utilizzato.
A chi dorme con la sana incoscienza dei figli di Dio.
Ma soprattutto dedicato:
A chi è solo che più solo non si può, che magari sopravvive inabissandosi in continue banali distrazioni - e riesce persino a non dare nell’occhio.
A chi ha raggiunto il fondo, gli ultimi confini, e sotto il peso del vissuto non ritrova la strada di sé, della propria esistenza vera.
A chi ha un mondo interiore - ricchissimo se frutto di solitario dolore - da esternare, da dare, e non sa a chi dire, e non sa come dare.
A volte ho la sensazione netta dell’immortalità nel presente.
(foto mia, Dolomiti bellunesi, estate 2013)
domenica 6 ottobre 2013
Tempo di marmellate
Poi, in questi giorni i ragazzi hanno traslocato, e sono stato una settimana in ferie per dare una mano, come ho potuto. Son contento del risultato, ma non è certo finita l’avventura.
Al precedente post è giunto questo commento del mio amico Leonardo, sapiente come sempre col carico della sua esperienza: “Ma secondo te, se non fosse successo quello che è successo (l'abbandono da parte di tua moglie) avresti tirato fuori tutta questa sapienza? .....vai Paolo, vai! E' proprio vero che Dio trae il bene anche dal male.. ti abbraccio!”
Ho pochi alberi da frutto, e vanno avanti nonostante me… arrivo a potare, ma nulla altro, tutto naturale. Poi raccolgo, se qualcosa viene.
Quest’anno tutto insieme, mi son trovato sommerso da frutta: prugne selvatiche, fichi, pesche bianche. Ho fatto marmellata con le prugne, e pare sia ottima, così dice chi ha assaggiato. Poi è toccato alle pesche, quelle che son sopravvissute ad una razzia di sconosciuti estimatori…
Dopo aver terminato la raccolta delle pesche in basso, ho dovuto prendere la scala per raggiungere quelle in alto. E da lì mi son reso conto che ne avevo tralasciate alcune, che erano evidentemente coperte da foglie… come a dire: cambiando punto di vista si vedono cose impossibili prima!
Cosa poi ripetutasi in questi giorni con le noci che cominciano a cadere: pare di averle raccolte tutte, poi cambiando posizione se ne scoprono tante altre prima invisibili. Che stavano comunque lì, erano solo i miei occhi a non vederle!
Come se qualcuno, insistentemente, volesse farmi capire che è solo questione di punti di vista. Come se dovessi sempre più convincermi che il mio punto di vista non arriva a tutto. Come se dovessi acquisire, finalmente, il punto di vista alto, quello di Dio…
(foto mia, Dolomiti bellunesi, estate 2013)
venerdì 6 settembre 2013
Quale il segreto?
Al mio post Innamoramento e amore è giunto il commento da parte di un’anonima amica, forse non immediato e che quindi mi era sfuggito di mente nel bailamme di questo periodo. Un commento che è anche un bel quesito, e merita giusta risposta.
“Paolo, è bellissimo quello che scrivi.. Questo fatto dell'amore come "impegno" mi ha sempre affascinata tanto.. Solo che metterlo in pratica è difficile, soprattutto quando vedi l'emergere dei limiti dell'altro o anche quando vedi le tue stesse debolezze, soprattutto dopo tante cadute causate dalle tue imperfezioni, schemi, convinzioni e aspettative (tendenza alla critica o desiderio che tutto deve essere come tu l'hai immaginato..)... Credi di non esserne capace! Il segreto per ricominciare qual è? Come fai a vedere l'altro, te stesso e il rapporto sempre nuovo e non cadere nella tentazione di stare alla finestra a giudicare e mollare tutto perché è più facile così?”
Sono un ipercritico di natura, e certo vivermi accanto può non essere facile. Sto sempre a cercare il meglio, il perfetto, in me e anche negli altri. Figurarsi con la mia sposa, coi figli. Per anni e anni so di essere stato una spina, e la cosa alla fine, nel subconscio, addolorava e bloccava forse più me che i miei vicini. Perché pretendi da te soprattutto, bravura, generosità, perfezione. E poi ti deprimi quando non sei all’altezza, ovvero molto spesso.
Poi chiaramente ti aspetti tanto anche da lei, la tua dolce metà di cui conosci bene i tanti pregi. E dai figli pure, sai l’impegno comune nel crescerli, sai le loro qualità e quindi sarebbe ovvio attendere una sorta di ritorno…
Tutto “umanamente” indiscutibile, direi nella norma. Ma non funziona, siamo in tanti ad averne esperienza. Entri nel circolo vizioso, le giornate col muso, le offese che non dimentichi, i silenzi senza fine. E un torto ne tira un altro, inevitabile. Vedo attorno a me gente che si separa e si fa del male infinito, in un estenuante diabolico vortice. L’odio reciproco piuttosto che l’amore promessosi. Ma lo capisco, non giudico affatto.
Nel circolo vizioso ci ho vissuto a lungo, come tanti, finché non è giunto questo macigno della separazione, finché non ho trovato un baricentro diverso, dentro di me. Quello di cui stiamo scrivendo, un poco alla volta. Ma vorrei dire che l’amore per Dio può “non bastare”, qui parliamo del rapporto uomo-donna dentro il matrimonio: è qualcosa di altro, anche.
Parliamo di umanità, del cuore di un uomo e di una donna che può smarrirsi pur in una grande fede.
E non credo all’anima gemella, immagine stereotipa figlia della più becera Hollywood.
Credo piuttosto al circolo virtuoso, che esiste. Esiste, cara amica, ti assicuro: conosco bene quello vizioso, ed è lo stesso meccanismo, ma al positivo. Perché sono io che genero l’altra, ogni momento. Il mio amore, seppure senza ritorno, genera comunque me: “Siamo passati dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli”. Vero sempre e comunque, e anche nel suo contrario…
L’innamoramento genera l’amore. Ma poi l’amore genera l’innamoramento. Che produce amore. Che crea innamoramento. Così, sino alla fine dei giorni: questo il matrimonio, in un crescendo che nemmeno la mitica Nona sinfonia del grande Beethoven giunge a rendere!
Proprio ieri sera, l’incontro casuale e fugace con due occhi belli. Belli e luminosi come da tanto non vedevo, o forse mai avevo visti. Forse causato dal mio vedere nuovo? Forse oggettivamente vero?
Mi son ri-scoperto innamorato, trasportato oltre…
Pubblico questa foto che mi piace troppo (dal web, tenuta nel cassetto da tempo!), che pare la realizzazione di un sogno comune: Vanessa Redgrave e Franco Nero, due grandi attori, due creature che si son ritrovate dopo lontananze di anni e anni. Troppo bello lo sguardo di lei, e quel tenersi per mano senza ritegno alcuno... pur essendo persone “vissute”, e con quei capelli bianchi!
(foto dal web)
“Paolo, è bellissimo quello che scrivi.. Questo fatto dell'amore come "impegno" mi ha sempre affascinata tanto.. Solo che metterlo in pratica è difficile, soprattutto quando vedi l'emergere dei limiti dell'altro o anche quando vedi le tue stesse debolezze, soprattutto dopo tante cadute causate dalle tue imperfezioni, schemi, convinzioni e aspettative (tendenza alla critica o desiderio che tutto deve essere come tu l'hai immaginato..)... Credi di non esserne capace! Il segreto per ricominciare qual è? Come fai a vedere l'altro, te stesso e il rapporto sempre nuovo e non cadere nella tentazione di stare alla finestra a giudicare e mollare tutto perché è più facile così?”
Sono un ipercritico di natura, e certo vivermi accanto può non essere facile. Sto sempre a cercare il meglio, il perfetto, in me e anche negli altri. Figurarsi con la mia sposa, coi figli. Per anni e anni so di essere stato una spina, e la cosa alla fine, nel subconscio, addolorava e bloccava forse più me che i miei vicini. Perché pretendi da te soprattutto, bravura, generosità, perfezione. E poi ti deprimi quando non sei all’altezza, ovvero molto spesso.
Poi chiaramente ti aspetti tanto anche da lei, la tua dolce metà di cui conosci bene i tanti pregi. E dai figli pure, sai l’impegno comune nel crescerli, sai le loro qualità e quindi sarebbe ovvio attendere una sorta di ritorno…
Tutto “umanamente” indiscutibile, direi nella norma. Ma non funziona, siamo in tanti ad averne esperienza. Entri nel circolo vizioso, le giornate col muso, le offese che non dimentichi, i silenzi senza fine. E un torto ne tira un altro, inevitabile. Vedo attorno a me gente che si separa e si fa del male infinito, in un estenuante diabolico vortice. L’odio reciproco piuttosto che l’amore promessosi. Ma lo capisco, non giudico affatto.
Nel circolo vizioso ci ho vissuto a lungo, come tanti, finché non è giunto questo macigno della separazione, finché non ho trovato un baricentro diverso, dentro di me. Quello di cui stiamo scrivendo, un poco alla volta. Ma vorrei dire che l’amore per Dio può “non bastare”, qui parliamo del rapporto uomo-donna dentro il matrimonio: è qualcosa di altro, anche.
Parliamo di umanità, del cuore di un uomo e di una donna che può smarrirsi pur in una grande fede.
E non credo all’anima gemella, immagine stereotipa figlia della più becera Hollywood.
Credo piuttosto al circolo virtuoso, che esiste. Esiste, cara amica, ti assicuro: conosco bene quello vizioso, ed è lo stesso meccanismo, ma al positivo. Perché sono io che genero l’altra, ogni momento. Il mio amore, seppure senza ritorno, genera comunque me: “Siamo passati dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli”. Vero sempre e comunque, e anche nel suo contrario…
L’innamoramento genera l’amore. Ma poi l’amore genera l’innamoramento. Che produce amore. Che crea innamoramento. Così, sino alla fine dei giorni: questo il matrimonio, in un crescendo che nemmeno la mitica Nona sinfonia del grande Beethoven giunge a rendere!
E poi: imparare a non guardare sé, ma l’altro. E vederlo, il
coniuge – ma anche tutto e tutti, con gli occhi del Padre, e quindi nel suo
dover essere, nel suo disegno soprannaturale: siamo nati in vita per essere
dono reciproco, ognuno di noi è una parola di Dio in una bellezza unica.
Pubblico questa foto che mi piace troppo (dal web, tenuta nel cassetto da tempo!), che pare la realizzazione di un sogno comune: Vanessa Redgrave e Franco Nero, due grandi attori, due creature che si son ritrovate dopo lontananze di anni e anni. Troppo bello lo sguardo di lei, e quel tenersi per mano senza ritegno alcuno... pur essendo persone “vissute”, e con quei capelli bianchi!
(foto dal web)
domenica 25 agosto 2013
Il settimo autunno
Oggi domenica, a pranzo, da solo, in terrazzo.
Dinanzi a me distese di girasoli che volgono al termine della loro breve intensa esistenza. Dopo tanta bellezza, ora avvizziscono in attesa di divenire utili: probabile olio ad uso degli uomini.
Vedo gli alberi al fiume di colori cangianti, spazzolati dal vento del sud che sta portando ancora temporale.
Il vento già fresco dell’autunno che si incunea prepotente in questo ultimo scorcio d’estate.
Questo è il momento forse più bello dell’anno. La natura si prepara al silenzio, alla morte, dopo tanto splendore e fruttificare. Quanto mi piace! Sarà che a un certo punto mi sono accorto di essere io stesso un fiore autunnale.
Ho quasi invidiato tante coppie di amici che hanno vissuto e vivono storie familiari meno turbolente (presumo, forse!) della nostra. Ma poi ho dovuto capire, ed è stata una grazia, una delle tante, che ogni umano è diverso, ogni coppia è diversa. I progetti di Dio si capiscono solo nel tempo, oltre noi e il nostro errare a volte indicibile, inaccettabile.
Il disegno nasce dal nostro scarabocchio, si sviluppa nella “permissione di Dio” quando è impossibile nella "volontà di Dio”.
Si sviluppa, cresce, diviene utile al genere umano nonostante anzi proprio per i nostri limiti.
Si modella sulla nostra umanità, che a volte si perde sui sentieri tortuosi della vita.
Quando si prendono lucciole per lanterne, quando pare felicità tanta roba che alla fine non lo è.
Quando, caduto nell’inganno per tanto tempo, ti ritrovi lontano dalla tua strada e devi sgobbare per ritrovare la giusta via. Devi ricostruirti e non capisci nemmeno da dove cominciare.
Quando anni fa mi ritrovai appieno in una situazione di questo genere il grande Mario, con la sua consueta sapienza, sapeva indirizzarmi sempre al meglio. Dopo la palestra, con l’attività fisica per salvare il corpo dalla follia, la donazione come cura per il cuore. Continuamente mi trovava da fare: attività che mi erano confacenti e che impedivano il concentrarsi sui propri dolori occupandosi invece dell’umanità.
Eppoi, senza dubbio: silenzio e solitudine.
Silenzio, per ascoltare finalmente la voce del Dio dentro di te, una voce di tenerezza estrema che mai odi se non taci assoluto.
Solitudine, non quella disperante dell’uomo che cerca altri umani per condividere la noia dell’esistere, ma quella vera in Dio: in cui siamo nati, in cui partiremo prima o poi. In cui conviene vivere in questa terra, da subito, per godere appieno del Regno dei cieli. Che è qui, nei paraggi, e quasi sempre non lo avvertiamo, presi nei mille vortici del quotidiano.
Sta arrivando il mio settimo autunno qui nell’eremo.
La vita mi è cambiata tanto, e ancor più avverrà. Alla fine ancora un grazie alla mia sposa che, presumo inconsapevole ma certo strumento di Dio, mi ha costretto a tutto ciò: questa separazione è stata la grazia più grande della mia vita.
Non certo la separazione in sé, né il suo dolore immane.
Ma quello che ne è nato e ne nasce di continuo: la vita, la luce.
Come a dire: "Tutto, sempre, ha, ha avuto, un solo destino: l'unione con Te"...
(foto mia, Spagna - sulla via di Santiago, 2007)
Dinanzi a me distese di girasoli che volgono al termine della loro breve intensa esistenza. Dopo tanta bellezza, ora avvizziscono in attesa di divenire utili: probabile olio ad uso degli uomini.
Vedo gli alberi al fiume di colori cangianti, spazzolati dal vento del sud che sta portando ancora temporale.
Il vento già fresco dell’autunno che si incunea prepotente in questo ultimo scorcio d’estate.
Questo è il momento forse più bello dell’anno. La natura si prepara al silenzio, alla morte, dopo tanto splendore e fruttificare. Quanto mi piace! Sarà che a un certo punto mi sono accorto di essere io stesso un fiore autunnale.
Ho quasi invidiato tante coppie di amici che hanno vissuto e vivono storie familiari meno turbolente (presumo, forse!) della nostra. Ma poi ho dovuto capire, ed è stata una grazia, una delle tante, che ogni umano è diverso, ogni coppia è diversa. I progetti di Dio si capiscono solo nel tempo, oltre noi e il nostro errare a volte indicibile, inaccettabile.
Il disegno nasce dal nostro scarabocchio, si sviluppa nella “permissione di Dio” quando è impossibile nella "volontà di Dio”.
Si sviluppa, cresce, diviene utile al genere umano nonostante anzi proprio per i nostri limiti.
Si modella sulla nostra umanità, che a volte si perde sui sentieri tortuosi della vita.
Quando si prendono lucciole per lanterne, quando pare felicità tanta roba che alla fine non lo è.
Quando, caduto nell’inganno per tanto tempo, ti ritrovi lontano dalla tua strada e devi sgobbare per ritrovare la giusta via. Devi ricostruirti e non capisci nemmeno da dove cominciare.
Quando anni fa mi ritrovai appieno in una situazione di questo genere il grande Mario, con la sua consueta sapienza, sapeva indirizzarmi sempre al meglio. Dopo la palestra, con l’attività fisica per salvare il corpo dalla follia, la donazione come cura per il cuore. Continuamente mi trovava da fare: attività che mi erano confacenti e che impedivano il concentrarsi sui propri dolori occupandosi invece dell’umanità.
Eppoi, senza dubbio: silenzio e solitudine.
Silenzio, per ascoltare finalmente la voce del Dio dentro di te, una voce di tenerezza estrema che mai odi se non taci assoluto.
Solitudine, non quella disperante dell’uomo che cerca altri umani per condividere la noia dell’esistere, ma quella vera in Dio: in cui siamo nati, in cui partiremo prima o poi. In cui conviene vivere in questa terra, da subito, per godere appieno del Regno dei cieli. Che è qui, nei paraggi, e quasi sempre non lo avvertiamo, presi nei mille vortici del quotidiano.
Sta arrivando il mio settimo autunno qui nell’eremo.
La vita mi è cambiata tanto, e ancor più avverrà. Alla fine ancora un grazie alla mia sposa che, presumo inconsapevole ma certo strumento di Dio, mi ha costretto a tutto ciò: questa separazione è stata la grazia più grande della mia vita.
Non certo la separazione in sé, né il suo dolore immane.
Ma quello che ne è nato e ne nasce di continuo: la vita, la luce.
Come a dire: "Tutto, sempre, ha, ha avuto, un solo destino: l'unione con Te"...
(foto mia, Spagna - sulla via di Santiago, 2007)
domenica 18 agosto 2013
Troppo rumore, ancora!
Ero bambino, ho un ricordo bellissimo dei temporali estivi. D’estate, appena possibile fuggivo da Roma per starmene su, tra i monti d’Abruzzo, nella mia casa natia. Certi anni pioveva tutti i pomeriggi. Ci rifugiavamo, tre, quattro coetanei, nella soffitta della vecchia casa di famiglia. Si accedeva con una scala di legno quasi verticale, eravamo circondati da foglie di granturco. Quelle che poi, una volta seccate, si usavano per fare i materassi (questa pochi la sanno!). E chi sa quanti topi nel mezzo! Giocavamo al Monopoli, al Totopoli. Fuori diluviava, l’aria diveniva tersa, carica di profumi che ho ancora qui, nel cuore. Sognavamo la vita, si progettavano escursioni sui monti vicini. Poi, cessato il piovere, si tornava sull’aia.
Oggi è arrivato un bel temporale. Stavo cucinandomi alcune cose per i prossimi giorni e per stasera. Mi son sentito l’urgenza di scrivere di questo lembo di esistenza che condivido con voi. E son giunte mail, importanti.
“Conosco questo tuo dolore… perché da oltre 20 anni vivo da vedova bianca, pur condividendo, o talvolta, subendo tutto: casa, figli, hobby. Tranne quel corpo che, grazie alla fusione di due anime ed al dolce incastro di due "carni vive", diventerebbe il tempio ideale per custodire e rendere vivo e operante lo spirito... ed ora quel corpo neanche mi attira più, anzi mi infastidisce! Ho provato con presuntuosa umiltà persino ad offrire tutto pronunciando le parole "...offerto in sacrificio per voi..." ma poi mi chiedo se a questa torta-matrimonio non manchi che lo zucchero e quindi, comunque la si confezioni, risulta sempre troppo amara! Perdona la brutalità ma volevo comunicarti la mia anima che va avanti solo grazie al rapporto con Dio che da anni e anni mi fa ricominciare e sopportare uno stato di cose che definire assurdo è poco!”
Poi mi giunge Gennaro, con la consueta disarmante nitidezza: “Ciao. Scrivi ed hai un occhio in quello che scrivi. Quello che vedi è pure bello perché fatto con bellezza. Scrivi di scrivere. Un ennesimo lo farebbe.....molti amici e il passaggio della vita. Toccante.”
“In una serata triste... stasera con l’ultimo tuo scritto giungi a “fagiolo” (come si suol dire). Leggerti mi ha richiamato il senso del dolore, della fatica in salita. Leggere il vuoto che tu comunichi e avvertire che è così, un “alti e bassi”. Voglio solo dirti grazie per ciò che hai scritto nell’ultimo tuo blog e in quello precedente (il baricentro). Che la fatica ce l’abbiamo tutti ma che bisogna andare avanti… Un caro abbraccio! Anna”
In questo periodo spesso mi sveglio molto presto, prima dell’alba. E stamani è accaduto di ricordarmi del salvaschermo su uno dei miei pc tanti anni fa (forse otto, nove, ma paiono secoli!), un testo scorrevole, molto piccolo, che ricorda: TROPPO RUMORE, ANCORA!
Ecco, il silenzio di Dio di cui recentemente dicevo è la perfetta risposta al mio non silenzio, che mi pare tanto ma evidentemente è ancora troppo rumoroso. Mi son accorto che mai, mai posso dirmi satollo di silenzio, perché è qui solo che Dio può farsi presente: “Ecco, sto alla porta e busso…”.
Troppo rumore ancora, davvero. Una confusione, tante cose, il corpo in dissoluzione, l’estate, le vacanze (quest’anno troppe, non ci sono abituato!) e poi improvviso accade qualcosa di lancinante al cuore, una saetta che è un dolore di un attimo veloce quasi la luce, e un grazie: “Sì, siamo contenti Signore, quando l’ala di un angelo ci discopre il celeste orizzonte, che la prova ci aveva bruscamente annientato. Siamo contenti, Signore, perché il tuo amore si mostra in quei momenti così onnipotente, che la nostra anima è in adorazione ed esaltazione fino al silenzio…”
Fino al silenzio!
(foto mia, Umbria 2000)
Oggi è arrivato un bel temporale. Stavo cucinandomi alcune cose per i prossimi giorni e per stasera. Mi son sentito l’urgenza di scrivere di questo lembo di esistenza che condivido con voi. E son giunte mail, importanti.
“Conosco questo tuo dolore… perché da oltre 20 anni vivo da vedova bianca, pur condividendo, o talvolta, subendo tutto: casa, figli, hobby. Tranne quel corpo che, grazie alla fusione di due anime ed al dolce incastro di due "carni vive", diventerebbe il tempio ideale per custodire e rendere vivo e operante lo spirito... ed ora quel corpo neanche mi attira più, anzi mi infastidisce! Ho provato con presuntuosa umiltà persino ad offrire tutto pronunciando le parole "...offerto in sacrificio per voi..." ma poi mi chiedo se a questa torta-matrimonio non manchi che lo zucchero e quindi, comunque la si confezioni, risulta sempre troppo amara! Perdona la brutalità ma volevo comunicarti la mia anima che va avanti solo grazie al rapporto con Dio che da anni e anni mi fa ricominciare e sopportare uno stato di cose che definire assurdo è poco!”
Poi mi giunge Gennaro, con la consueta disarmante nitidezza: “Ciao. Scrivi ed hai un occhio in quello che scrivi. Quello che vedi è pure bello perché fatto con bellezza. Scrivi di scrivere. Un ennesimo lo farebbe.....molti amici e il passaggio della vita. Toccante.”
“In una serata triste... stasera con l’ultimo tuo scritto giungi a “fagiolo” (come si suol dire). Leggerti mi ha richiamato il senso del dolore, della fatica in salita. Leggere il vuoto che tu comunichi e avvertire che è così, un “alti e bassi”. Voglio solo dirti grazie per ciò che hai scritto nell’ultimo tuo blog e in quello precedente (il baricentro). Che la fatica ce l’abbiamo tutti ma che bisogna andare avanti… Un caro abbraccio! Anna”
In questo periodo spesso mi sveglio molto presto, prima dell’alba. E stamani è accaduto di ricordarmi del salvaschermo su uno dei miei pc tanti anni fa (forse otto, nove, ma paiono secoli!), un testo scorrevole, molto piccolo, che ricorda: TROPPO RUMORE, ANCORA!
Ecco, il silenzio di Dio di cui recentemente dicevo è la perfetta risposta al mio non silenzio, che mi pare tanto ma evidentemente è ancora troppo rumoroso. Mi son accorto che mai, mai posso dirmi satollo di silenzio, perché è qui solo che Dio può farsi presente: “Ecco, sto alla porta e busso…”.
Troppo rumore ancora, davvero. Una confusione, tante cose, il corpo in dissoluzione, l’estate, le vacanze (quest’anno troppe, non ci sono abituato!) e poi improvviso accade qualcosa di lancinante al cuore, una saetta che è un dolore di un attimo veloce quasi la luce, e un grazie: “Sì, siamo contenti Signore, quando l’ala di un angelo ci discopre il celeste orizzonte, che la prova ci aveva bruscamente annientato. Siamo contenti, Signore, perché il tuo amore si mostra in quei momenti così onnipotente, che la nostra anima è in adorazione ed esaltazione fino al silenzio…”
Fino al silenzio!
(foto mia, Umbria 2000)
venerdì 26 luglio 2013
Il corpo incompiuto
So di aver scritto un post equivoco, in qualche modo. Ma l’ultimo post, “Il baricentro”, andava scritto.
Ho prima consultato la mia alter ego, la mia carissima amica Bianca che da quando è iniziata questa avventura sul web mi legge in anteprima, mi tira le orecchie per le virgole o altro, mi da l’ok per la pubblicazione (mica sempre!). All’epoca, questa fu per me “condicio sine qua non”. Senza lei, che vive cinquecento km lontano, non avrei nemmeno iniziato. Serviva una persona esperta di lettere, disponibile a spendere tanto tempo sulle mie parole, con la passione per l’umanità, e lei era perfetta. Perfetta e puntuale, come la sua terra che tanto amo.
Le ho inviato in anteprima il post, con qualche mia perplessità. Mi ha commentato: “Che dire, pubblica .... lo senti, non lo senti, che importa: è un DONO.” Mi ha poi detto di qualche suo momento di aridità… nella scrittura (che bello, anche lei è umana!). E ha terminato: “Un abbraccione, caro Paolo. E grazie per la nostra amicizia!” Un grazie reciproco, mia cara!
Alla pubblicazione son seguite mail allarmate:
“Oh Paoletto, che succede? Cos'è questa stanchezza, questa disillusione? Ripigliati, supera il jet lag e torna tra noi vispo e sereno, nell'abbraccio della Madre e in quello dei fratelli... Con tutte le nostre spine (coniugi poco inclini alla coniugazione) e le nostre rose: amici come te! Anna”
“Deduco dalla lettura del post sul tuo blog (ammazza quante parole inglesi...) che forse il viaggio non è andato benissimo. Non ci siamo più sentiti, come stai? Come va? Batti un colpo quando hai bisogno di parlare. Questo è il mio numero:… Francesca”
“Ciao Paolo, vorrei portare un po' del tuo peso...... Sentiamoci! Maurizio”
Sono reduce da un viaggio - lungo e importante! - dall’altra parte della terra, ne sto scrivendo. Colgo l’occasione e rispondo in pubblico… per eventuali altre affettuose preoccupazioni (grazie!)
Il viaggio e tutto: andato molto benissimo! (lo so che non si può dire, ma rende bene!)
È che io adesso fatico a riprendermi, a rientrare nella vita usuale, e litigo con l’Eterno Padre: quando pare che non ce la fai più e ti manca il respiro…
Sono accadute tante cose in quelle due settimane, di vario genere, ma soprattutto: belle! E per questo ora la mia umanità fatica... ma sono momenti. Mi pareva giusto scrivere anche queste cose, perché alla fine son queste che fanno crescere, mica solo i momenti belli!
Come quando sali in montagna... la fatica è nella salita, mica nell’andare in piano! Però è poi la salita che ti fa arrivare alla vetta. Bisogna prendere coscienza che questo non è il Dio delle pianure, semmai è il Dio della salite... basti pensare al Golgota (beh, la condizione del separato un poco ci somiglia, no?!)
Poi l’Asia mica è uno scherzo… e io fatico a riprendermi, qui nell’eremo!
Comunque credo che occorra anche imparare a chiamare le cose col loro nome. Il dolore si chiama dolore. Poi lo si può vivere in tanti modi diversi. Ma dolore si chiama, ed è.
E la vita non sempre è uguale. A volte sei contento, che questo dolore della salita ti porta in alto, sulla vetta che vuoi raggiungere... altre volte ti manca il fiato e ti chiedi perché, che ci stai a fare, forse stavi meglio al mare sdraiato al sole...
Essì, la verità che è che sono uomo, non “essere angelico”, e questo scalare la montagna della vita a volte affatica, a volte dona gioie impossibili, ineffabili. Uomo col cuore che palpita: quando batte forte, quando pare scoppiare. Uomo libero che decide, con tutto quello che ne consegue, per il Dio di Gesù Cristo, quello andato a farsi crocifiggere a abbandonare per amore. Quello che dopo tre giorni e tre lunghissime notti è risorto. Risorto donando luce agli occhi della Madre che in Lui credeva, e sentiva che sarebbe risorto. Contro tutti e contro tutte le “umane” considerazioni.
D’altronde è proprio vero che “…l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due ma una sola carne…”: lo sperimentiamo in tanti in prima persona, continuando a vivere nel nostro matrimonio. Io mi trovo solo ad essere la punta dell’iceberg. E posso assicurare che il dolore, che parrebbe una cosa affettiva, della mente… è invece corporeo, ti trovi una parte di corpo mancante, stai incompiuto.
Questo il matrimonio, specie quello cristiano: realtà anche della carne, che può rendere il corpo realizzato, il corpo incompiuto.
(foto mia, Sicilia, estate 2010)
Ho prima consultato la mia alter ego, la mia carissima amica Bianca che da quando è iniziata questa avventura sul web mi legge in anteprima, mi tira le orecchie per le virgole o altro, mi da l’ok per la pubblicazione (mica sempre!). All’epoca, questa fu per me “condicio sine qua non”. Senza lei, che vive cinquecento km lontano, non avrei nemmeno iniziato. Serviva una persona esperta di lettere, disponibile a spendere tanto tempo sulle mie parole, con la passione per l’umanità, e lei era perfetta. Perfetta e puntuale, come la sua terra che tanto amo.
Le ho inviato in anteprima il post, con qualche mia perplessità. Mi ha commentato: “Che dire, pubblica .... lo senti, non lo senti, che importa: è un DONO.” Mi ha poi detto di qualche suo momento di aridità… nella scrittura (che bello, anche lei è umana!). E ha terminato: “Un abbraccione, caro Paolo. E grazie per la nostra amicizia!” Un grazie reciproco, mia cara!
Alla pubblicazione son seguite mail allarmate:
“Oh Paoletto, che succede? Cos'è questa stanchezza, questa disillusione? Ripigliati, supera il jet lag e torna tra noi vispo e sereno, nell'abbraccio della Madre e in quello dei fratelli... Con tutte le nostre spine (coniugi poco inclini alla coniugazione) e le nostre rose: amici come te! Anna”
“Deduco dalla lettura del post sul tuo blog (ammazza quante parole inglesi...) che forse il viaggio non è andato benissimo. Non ci siamo più sentiti, come stai? Come va? Batti un colpo quando hai bisogno di parlare. Questo è il mio numero:… Francesca”
“Ciao Paolo, vorrei portare un po' del tuo peso...... Sentiamoci! Maurizio”
Sono reduce da un viaggio - lungo e importante! - dall’altra parte della terra, ne sto scrivendo. Colgo l’occasione e rispondo in pubblico… per eventuali altre affettuose preoccupazioni (grazie!)
Il viaggio e tutto: andato molto benissimo! (lo so che non si può dire, ma rende bene!)
È che io adesso fatico a riprendermi, a rientrare nella vita usuale, e litigo con l’Eterno Padre: quando pare che non ce la fai più e ti manca il respiro…
Sono accadute tante cose in quelle due settimane, di vario genere, ma soprattutto: belle! E per questo ora la mia umanità fatica... ma sono momenti. Mi pareva giusto scrivere anche queste cose, perché alla fine son queste che fanno crescere, mica solo i momenti belli!
Come quando sali in montagna... la fatica è nella salita, mica nell’andare in piano! Però è poi la salita che ti fa arrivare alla vetta. Bisogna prendere coscienza che questo non è il Dio delle pianure, semmai è il Dio della salite... basti pensare al Golgota (beh, la condizione del separato un poco ci somiglia, no?!)
Poi l’Asia mica è uno scherzo… e io fatico a riprendermi, qui nell’eremo!
Comunque credo che occorra anche imparare a chiamare le cose col loro nome. Il dolore si chiama dolore. Poi lo si può vivere in tanti modi diversi. Ma dolore si chiama, ed è.
E la vita non sempre è uguale. A volte sei contento, che questo dolore della salita ti porta in alto, sulla vetta che vuoi raggiungere... altre volte ti manca il fiato e ti chiedi perché, che ci stai a fare, forse stavi meglio al mare sdraiato al sole...
Essì, la verità che è che sono uomo, non “essere angelico”, e questo scalare la montagna della vita a volte affatica, a volte dona gioie impossibili, ineffabili. Uomo col cuore che palpita: quando batte forte, quando pare scoppiare. Uomo libero che decide, con tutto quello che ne consegue, per il Dio di Gesù Cristo, quello andato a farsi crocifiggere a abbandonare per amore. Quello che dopo tre giorni e tre lunghissime notti è risorto. Risorto donando luce agli occhi della Madre che in Lui credeva, e sentiva che sarebbe risorto. Contro tutti e contro tutte le “umane” considerazioni.
D’altronde è proprio vero che “…l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due ma una sola carne…”: lo sperimentiamo in tanti in prima persona, continuando a vivere nel nostro matrimonio. Io mi trovo solo ad essere la punta dell’iceberg. E posso assicurare che il dolore, che parrebbe una cosa affettiva, della mente… è invece corporeo, ti trovi una parte di corpo mancante, stai incompiuto.
Questo il matrimonio, specie quello cristiano: realtà anche della carne, che può rendere il corpo realizzato, il corpo incompiuto.
(foto mia, Sicilia, estate 2010)
domenica 21 luglio 2013
Il baricentro
Chiede: problemi?
Beh, volevo rispondere: sì, uno solo: la vita.
Questa vita che mai è uguale a sé, che scorre vertiginosa e spaventevole, che ti inchioda e ti libera, che ti opprime ti seduce ti commuove. Ti avvicina.
Sì, alla fine questo è vivere: avvicinarsi. Un tempo si studiava al Catechismo, era una delle cose basilari: il perché della vita, a cosa serve. Oggi non so se è ancora eguale. Però mi accorgo di quanto fosse vero, e certo all’epoca mica potevo capirlo. Ma ci credevamo, semplicemente perché così ci si insegnava.
Oggi mi pare che invece tutto sia in discussione, e cosa credere più? Forse dall’esperienza, dal provare direttamente?
Più volte, cercando cose sul web, mi sono imbattuto in persone che fanno recensioni di tutto, dai cellulari alle macchine fotografiche, alle lavatrici, che commentano i film visti. Poi c’è chi scrive poesie, chi racconti, chi blog (!). Chi monta film su canzoni altrui. Chi produce video in proprio. Insomma, oggi la parola d’ordine pare sia: essere protagonisti. Non più discenti, ma direttamente coinvolti: “Non ci credo se non ne ho esperienza”. Un bel passo avanti dell’uomo nei confronti della storia, del Dio della storia. Protagonista e non più passivo. Dio è a un passo, non più realtà lontana, non più da altri mediata ma im-mediata, tangibile.
La vita, dicevo. Sono al punto che questo scrivere, che è stato una bellissima esperienza di crescita, in tutti i sensi, non mi piace più, divenuto difficile capire se sono soddisfatto e posso pubblicare, oppure devo fare ritocchi o stravolgimenti. Mi è divenuto trasparente, senza più peso, importanza. Pure gli apprezzamenti eventuali, le condivisioni.
Tutto in crisi, che meraviglia. Segno buono, si cresce, come direbbe Juan de la Cruz:
Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.
Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.
Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.
Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.
Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.
Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.
Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.
Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei.
D’altronde questo mio scrivere, né professionista, né pennivendolo, è strettamente connesso al vivere. E il vivere ti cambia. Ora, dopo tanta luce, siamo ad un ennesimo silenzio di Dio, quando tutto attorno tace, pure la natura che invece fuori è esplosa in una ricca estate… e tocca ogni volta ritrovare il proprio centro, diverso da quello di ieri, non ancora quello di domani: il proprio baricentro di oggi.
Alla fine riesco a scrivere, sto qui a condividere la vita perché mi viene richiesto, ed è assolutamente giusto e bello: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
(foto mia, Umbria, estate 2011)
lunedì 24 giugno 2013
Il mistero
Siamo dentro storie di separazioni, e quindi di dolore, comunque le si guardi.
Il dolore esiste. A tutti i livelli, in tutti gli esseri viventi (quante volte diciamo che pure un ramo strappato, reciso male, genera sofferenza all’albero?).
L’uomo è il principale artefice del dolore, e il primo a soffrirne.
Poi c’è modo e modo di viverlo, il dolore subìto. I più lo riversano sul mondo accanto, generando altro dolore in un perverso meccanismo di moltiplicazione multilivello.
In fondo Caligola può essere, ed è, in ognuno di noi, in molteplici modi.
Nel Rosario, ci sono specifici i “misteri” dolorosi. Misteri, son detti. Il primo: “Padre allontana da me questo calice, ma la tua e non la mia volontà si compia!” Gesù uomo, vero uomo. Non amante del dolore, amante di Dio.
Il secondo e il terzo un poco spiegano: dolori fisici, nel corpo flagellato, dolori interiori con la corona di spine ben calcata sulla testa.
Poi al quarto si sale il Golgota. Quante cadute in quella salita? Dopo le frustate, la corona di spine, il massacro, la stanchezza indicibile: caricarsi della “propria” croce, e salire. Su in alto. Una salita in quel modo! E tutti attorno che gridano, dileggiano. Gli amici svaniti. Quelli che volevano costruire tre tende dove stanno? I tanti miracolati? E quello che mai lo avrebbe tradito?
Uno di passaggio, uno sfigato si direbbe, si ritrova costretto ad aiutare. Non c’entra nulla con quella storia di follia dilagante (chissà che fine avrà poi fatto!?).
Poi la storia termina molto più drammatica di come si è evoluta, se possibile.
Inchiodato mani e piedi, spogliato, innalzato ad essere mostrato al mondo, abbeverato d’aceto, sfottuto persino, sino alla fine. Ce ne è abbastanza per ribellarsi, no?
E invece: “Padre, perdona loro, che non sanno quello che fanno”.
E poi quell’urlo che scuote la storia degli uomini, e che ancora l’umanità deve scoprire davvero, capire, vivere. Quel momento che cambia il corso degli eventi, che spiega il dolore, che illumina le tenebre per l’eternità.
Prima al Padre la preghiera per chi lo crocifigge, poi l’urlo che dice il distacco dal Padre. L’Abbandono. Che più morte non si può.
La gratitudine del Padre per essersi rimesso alla sua volontà?
Igino Giordani, uno che è entrato profondamente in questa storia, che certo l’ha più vissuta che studiata sui libri, dice: “Ritte e ferme, contro la tempesta, nell’ora decisiva, non stettero che Maria e la croce…”
Maria, torniamo sempre lì. Maria che aveva la sua dignità assassinata, assieme al Figlio. Lui, che viveva la morte globale, del tutto. Ma specie della sua dignità di uomo, e di Figlio di Dio.
Porlo a morire in alto, era togliergli l’ultima dignità di uomo: poteva morire in pace, avere una lacrima, un cedimento. Invece sta innalzato: testimone sino alla fine, questo il disegno. E lui risponde urlando al cielo per farsi sentire. Più dignità perdi, più attiri a te, da innalzato…
Ecco, la dignità. Una proprietà superflua per i più, ridondante, dei tempi andati. Chi ne parla più, mai? Eppure uno dei valori fondanti dell’umanità.
E quando ti viene calpestata, crocifissa, sei quell’Uomo lì del Golgota, senza magari saperlo.
La dignità dell’uomo è quella cosa che lo definisce, vorrei dire, nel suo disegno eterno, quasi cornice del quadro divino…
Partecipo oramai ai dolori di tanti amici, quasi come crocevia, concentratore di storie, anche, di dignità uccisa, calpestata.
Penso alla dignità di un amico carissimo che da decenni tenacemente vive dentro una storia quasi impossibile da spiegare e che negli scorsi giorni si è fatto migliaia di km in moto. Naturalmente: solo. Partito per dare sfogo, una volta tanto, quasi una momentanea liberazione. E tutto andato storto, che peggio (quasi) non si poteva. E poi, al ritorno, ancora sommatorie di eventi negativi, a tutti i livelli. E con dignità estrema continua ogni giorno ad affrontare l’esistenza.
Penso alla dignità dei tanti (e tantissime!) soli nella vita, e specie nella vita coniugale, che ogni giorno si trovano a vivere realtà inimmaginabili. Dignità che a volte pare subire traumatici calpestii, tali da mettere in discussione persino acclarate e importanti scelte di vita.
Quale il disegno? Non facile decifrare, non facile vivere.
Un mistero del dolore dinanzi a cui occorre tacere: in rispettoso, assoluto silenzio.
(foto mia, Spagna 1980)
Il dolore esiste. A tutti i livelli, in tutti gli esseri viventi (quante volte diciamo che pure un ramo strappato, reciso male, genera sofferenza all’albero?).
L’uomo è il principale artefice del dolore, e il primo a soffrirne.
Poi c’è modo e modo di viverlo, il dolore subìto. I più lo riversano sul mondo accanto, generando altro dolore in un perverso meccanismo di moltiplicazione multilivello.
In fondo Caligola può essere, ed è, in ognuno di noi, in molteplici modi.
Nel Rosario, ci sono specifici i “misteri” dolorosi. Misteri, son detti. Il primo: “Padre allontana da me questo calice, ma la tua e non la mia volontà si compia!” Gesù uomo, vero uomo. Non amante del dolore, amante di Dio.
Il secondo e il terzo un poco spiegano: dolori fisici, nel corpo flagellato, dolori interiori con la corona di spine ben calcata sulla testa.
Poi al quarto si sale il Golgota. Quante cadute in quella salita? Dopo le frustate, la corona di spine, il massacro, la stanchezza indicibile: caricarsi della “propria” croce, e salire. Su in alto. Una salita in quel modo! E tutti attorno che gridano, dileggiano. Gli amici svaniti. Quelli che volevano costruire tre tende dove stanno? I tanti miracolati? E quello che mai lo avrebbe tradito?
Uno di passaggio, uno sfigato si direbbe, si ritrova costretto ad aiutare. Non c’entra nulla con quella storia di follia dilagante (chissà che fine avrà poi fatto!?).
Poi la storia termina molto più drammatica di come si è evoluta, se possibile.
Inchiodato mani e piedi, spogliato, innalzato ad essere mostrato al mondo, abbeverato d’aceto, sfottuto persino, sino alla fine. Ce ne è abbastanza per ribellarsi, no?
E invece: “Padre, perdona loro, che non sanno quello che fanno”.
E poi quell’urlo che scuote la storia degli uomini, e che ancora l’umanità deve scoprire davvero, capire, vivere. Quel momento che cambia il corso degli eventi, che spiega il dolore, che illumina le tenebre per l’eternità.
Prima al Padre la preghiera per chi lo crocifigge, poi l’urlo che dice il distacco dal Padre. L’Abbandono. Che più morte non si può.
La gratitudine del Padre per essersi rimesso alla sua volontà?
Igino Giordani, uno che è entrato profondamente in questa storia, che certo l’ha più vissuta che studiata sui libri, dice: “Ritte e ferme, contro la tempesta, nell’ora decisiva, non stettero che Maria e la croce…”
Maria, torniamo sempre lì. Maria che aveva la sua dignità assassinata, assieme al Figlio. Lui, che viveva la morte globale, del tutto. Ma specie della sua dignità di uomo, e di Figlio di Dio.
Porlo a morire in alto, era togliergli l’ultima dignità di uomo: poteva morire in pace, avere una lacrima, un cedimento. Invece sta innalzato: testimone sino alla fine, questo il disegno. E lui risponde urlando al cielo per farsi sentire. Più dignità perdi, più attiri a te, da innalzato…
Ecco, la dignità. Una proprietà superflua per i più, ridondante, dei tempi andati. Chi ne parla più, mai? Eppure uno dei valori fondanti dell’umanità.
E quando ti viene calpestata, crocifissa, sei quell’Uomo lì del Golgota, senza magari saperlo.
La dignità dell’uomo è quella cosa che lo definisce, vorrei dire, nel suo disegno eterno, quasi cornice del quadro divino…
Partecipo oramai ai dolori di tanti amici, quasi come crocevia, concentratore di storie, anche, di dignità uccisa, calpestata.
Penso alla dignità di un amico carissimo che da decenni tenacemente vive dentro una storia quasi impossibile da spiegare e che negli scorsi giorni si è fatto migliaia di km in moto. Naturalmente: solo. Partito per dare sfogo, una volta tanto, quasi una momentanea liberazione. E tutto andato storto, che peggio (quasi) non si poteva. E poi, al ritorno, ancora sommatorie di eventi negativi, a tutti i livelli. E con dignità estrema continua ogni giorno ad affrontare l’esistenza.
Penso alla dignità dei tanti (e tantissime!) soli nella vita, e specie nella vita coniugale, che ogni giorno si trovano a vivere realtà inimmaginabili. Dignità che a volte pare subire traumatici calpestii, tali da mettere in discussione persino acclarate e importanti scelte di vita.
Quale il disegno? Non facile decifrare, non facile vivere.
Un mistero del dolore dinanzi a cui occorre tacere: in rispettoso, assoluto silenzio.
(foto mia, Spagna 1980)
venerdì 14 giugno 2013
Dio è morto
Ho dei ricordi vaghi, ma qualcosa riesco a rimettere insieme.
Forse l’estate del ’67, forse del ’68: avevo tredici, quattordici anni. In una piccolissima verde splendida radura, sotto gli alberi, pomeriggi di vacanza. I primi innamoramenti. Avevamo una radiolina (oltre al modernissimo mangiadischi!), e c’erano solo le onde medie, con i tre canali nazionali. Qualcuno ci aveva detto – il passaparola, mica come oggi che l’informazione è inflazionata! – di una canzone censurata, che però si poteva sentire su Radio Vaticana, che non riuscivamo a sintonizzare. Una canzone dal titolo impossibile da pensare: “Dio è morto”. La cosa mi lasciava molto perplesso, come poteva Dio morire? Ero stato chierichetto, e addirittura presidente per ben due volte, in una importante parrocchia romana, con molto impegno, come mio solito. E quindi sapevo tutto, no?
In quegli anni Dio era concepibile solo trionfante, altro che morto! Certo, il Figlio era morto in croce, ma poi risorto… e poi questa canzone diceva Dio morto, quindi il Padre…
La curiosità era dunque forte, forse pure il gusto del proibito (ma il paradosso era che la Chiesa la metteva in onda… quindi?).
Finalmente, ma credo diverso tempo dopo, riuscii a sentire questa fantomatica canzone. Forse da qui nacque la passione per Francesco Guccini, che poi mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, e oltre. Le canzoni delle osterie fuori porta, degli amici che se ne vanno, l’avvelenata… e tantissime altre. Hanno cresciuto me e buona parte della mia generazione.
Oggi mi rendo conto che l’uomo Guccini aveva qualcosa che trascende, nello scrivere cose che sentivamo nostre perché erano patrimonio comune dell’umanità.
L’arte, quella cosa che parla per sempre e ad ognuno, nell’anima immortale.
Guccini, profeta involontario come tutti, si guarda semplicemente attorno, e pare che nell’incipit sia partito da una poesia di Allen Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia…”.
Di recente sono accaduti, in rapida successione, episodi che mi hanno annichilito. Mi son sentito più che morto, tornato indietro nella mia storia, inebetito. Impossibilitato a tutto. Una sensazione di errori macroscopici, spaventosa. Solo a momenti si dileguava il baratro, nel rapporto coi fratelli.
Ecco, a questo punto della mia vita, so bene che Dio è morto davvero, morto in quelle cose che canta Guccini, e tante altre.
Quante volte l’ho ucciso e uccido, accantonandolo nel mio vivere.
Quante volte lo uccidiamo, ogni giorno, ogni notte, coi nostri tradimenti, con il nostro delirio di onnipotenza.
Quante volte ci sentiamo dio costruendoci un’esistenza a nostra immagine e somiglianza.
Quante volte siamo al centro della storia e tutto ci gira attorno.
Quante volte gli erronei sono sempre gli altri e noi i sempiterni giusti.
Ma so pure, ne ho qualche esperienza (e se è possibile a me è possibile a tutti!), che Dio è risorto, è vivo, molto vivo. Una cosa incredibile davvero: dipende da me! Mi ha lasciato una libertà tale che sono io che decido se Dio è. Pazzesco, eppure.
Attimo dopo attimo della mia vita posso far vivere o morire questo Dio “che sta alla porta e bussa”. “Se uno mi ama e osserva i miei comandamenti, io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora in lui”: più di questo?
E poi, la cosa stravolgente è che… non è mai troppo tardi!
Basta iniziare, in questo momento, non ieri, non domani. Questo è il tempo di Dio: adesso.
(foto mia, Umbria 2011)
In quegli anni Dio era concepibile solo trionfante, altro che morto! Certo, il Figlio era morto in croce, ma poi risorto… e poi questa canzone diceva Dio morto, quindi il Padre…
La curiosità era dunque forte, forse pure il gusto del proibito (ma il paradosso era che la Chiesa la metteva in onda… quindi?).
Finalmente, ma credo diverso tempo dopo, riuscii a sentire questa fantomatica canzone. Forse da qui nacque la passione per Francesco Guccini, che poi mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, e oltre. Le canzoni delle osterie fuori porta, degli amici che se ne vanno, l’avvelenata… e tantissime altre. Hanno cresciuto me e buona parte della mia generazione.
Oggi mi rendo conto che l’uomo Guccini aveva qualcosa che trascende, nello scrivere cose che sentivamo nostre perché erano patrimonio comune dell’umanità.
L’arte, quella cosa che parla per sempre e ad ognuno, nell’anima immortale.
Guccini, profeta involontario come tutti, si guarda semplicemente attorno, e pare che nell’incipit sia partito da una poesia di Allen Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia…”.
Di recente sono accaduti, in rapida successione, episodi che mi hanno annichilito. Mi son sentito più che morto, tornato indietro nella mia storia, inebetito. Impossibilitato a tutto. Una sensazione di errori macroscopici, spaventosa. Solo a momenti si dileguava il baratro, nel rapporto coi fratelli.
Ecco, a questo punto della mia vita, so bene che Dio è morto davvero, morto in quelle cose che canta Guccini, e tante altre.
Quante volte l’ho ucciso e uccido, accantonandolo nel mio vivere.
Quante volte lo uccidiamo, ogni giorno, ogni notte, coi nostri tradimenti, con il nostro delirio di onnipotenza.
Quante volte ci sentiamo dio costruendoci un’esistenza a nostra immagine e somiglianza.
Quante volte siamo al centro della storia e tutto ci gira attorno.
Quante volte gli erronei sono sempre gli altri e noi i sempiterni giusti.
Ma so pure, ne ho qualche esperienza (e se è possibile a me è possibile a tutti!), che Dio è risorto, è vivo, molto vivo. Una cosa incredibile davvero: dipende da me! Mi ha lasciato una libertà tale che sono io che decido se Dio è. Pazzesco, eppure.
Attimo dopo attimo della mia vita posso far vivere o morire questo Dio “che sta alla porta e bussa”. “Se uno mi ama e osserva i miei comandamenti, io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora in lui”: più di questo?
E poi, la cosa stravolgente è che… non è mai troppo tardi!
Basta iniziare, in questo momento, non ieri, non domani. Questo è il tempo di Dio: adesso.
(foto mia, Umbria 2011)
venerdì 24 maggio 2013
Caligola
ERRATA CORRIGE: mi ha scritto il Direttore, evento raro. Col suo garbo che ben conosco mi ha fatto una tiratina di orecchie, e a ragion veduta: nello scorso post cito Innamoramento e amore come opera di Erich Fromm… essendo invece di Francesco Alberoni! Gravissima la mia confusione, di solito ricontrollo tutto per bene, ma qui ero andato a memoria (fallace) tranquillamente. Fromm ha altri testi importanti, sempre molto in auge in quegli anni: L’arte di amare, Avere o essere… (mi sa che dovrò rileggermi tutto). Chiedo venia ai lettori (e al prof. Alberoni)!
. . .
Nel mondo della separazione di dolore ne circola sempre tanto. Di vario genere, ma molto spesso generato da torti che si subiscono. Ultimamente ho avuto una corrispondenza con un’attenta lettrice: “…passano i giorni, tra un dolore, difficoltà, rabbia. Si va avanti così, forse questa é la mia vita, la vera vita. E ho solo vissuto in una bolla di sapone. Tanti anni di matrimonio, poi la separazione. E’ mio marito nel bene e nel male. Ma siamo separati, preferisce altro. E ora come ora a me dispiace sopratutto per mia figlia che, come tutti i figli, non merita anche questo dolore e questa situazione sgradevole. Sì, perché gestire una situazione così é schifoso: non voglio che mia figlia sia il pacco postale della situazione. E mi viene mal di pancia a pensarci, e rabbia. Di recente sono ricaduta, sono tornata indietro di qualche passo, facevo progressi, ed invece... fortunatamente alcuni amici hanno ascoltato il mio ennesimo sfogo di rabbia. E’ successo un episodio spiacevole e, anche se spero il più tardi possibile, temo che la piccola venga a conoscere l’altra. Che schifo, una modernità che ho sempre accettato tranquillamente ma per gli altri, non riguardo a me stessa. Alle volte penso che sarebbe forse più facile per me se fossi anche io" moderna". Chissà cosa Dio ha in serbo per me… insomma, una situazione senza svolta. La strada é sempre la stessa, dura, difficile. Piena di amarezze e difficoltà. E poi rammarico, sensi di colpa verso la bambina. Credo proprio di aver sbagliato, ero accecata, innamorata e ingenua. Aver creduto che il suo fosse un amore maturo e per sempre. Adesso mi sembrano tutte cavolate, cose da favole. Ma la vita é altra cosa. Rileggo spesso la tua mail. Anche ora, sempre sul fatto "sta male chi fa il male"… perché in questi giorni se ne è andato a fare un viaggetto, a divertirsi con la sua nuova vita, e poi a me piange che non ha soldi, che ama nostra figlia…”
Anni fa, ero a teatro. Uno spettacolo d’avanguardia, creato da un amico regista. Un lavoro difficile, molto elaborato e benissimo riuscito. Ad un certo punto una frase che mi trafigge: “Ognuno si arrangia come può...” Era stata la mia vita per anni! Chiedo lumi, è tratta dal Caligola di Albert Camus. Non lo conosco, lo cerco: “Ciascuno conquista la sua purezza come può… E’ strano. Quando non uccido mi sento solo… non mi sento bene che tra i miei morti. Quelli sono veri. Sono come me… Io vivo, uccido, uso il potere forsennato del distruttore… Questa è la felicità: questa insopportabile liberazione, questo disprezzo universale; il sangue, l’odio intorno a me…”
Subito pensai ad una persona molto potente, che ben conoscevo, che nonostante una notevole intelligenza viveva col cuore eroso dalla rabbia cercando soluzione nel seminare il male. Impossibile, infatti non aveva mai pace. Sopravviveva con malvagità, ossessionato dal cercare sempre il male altrui.
Mi trovo ultimamente sempre più spesso ad asserire che “chi fa il male sta male”. Mi sembra lapalissiano, ed invece tante persone quasi provano un senso di invidia per chi “se ne frega”, commette il male, semina dolore. Mi si ribatte che sta male chi lo subisce, il torto! Evidente, ma credo non ci sia paragone: tra il generare dolore e il subirlo, sta peggio chi lo genera. Sembra strano a dire, ma posso assicurare che è così. Dipende da come si vive il dolore subìto, non altro.
E poi, onestamente: pensare che “chi fa il male sta bene, beato lui” significa dire che Dio non è. Negare il bene, negare Dio-Amore. D'altronde è pure vero il contrario: chi fa il bene sta bene, può stare bene.
Gandhi dice: “Non posso farti del male senza ferirmi, siamo una cosa sola”.
Siamo una cosa sola?! E allora cosa è possibile ancor più col sacramento?
(foto mia, Umbria 2008)
. . .
Nel mondo della separazione di dolore ne circola sempre tanto. Di vario genere, ma molto spesso generato da torti che si subiscono. Ultimamente ho avuto una corrispondenza con un’attenta lettrice: “…passano i giorni, tra un dolore, difficoltà, rabbia. Si va avanti così, forse questa é la mia vita, la vera vita. E ho solo vissuto in una bolla di sapone. Tanti anni di matrimonio, poi la separazione. E’ mio marito nel bene e nel male. Ma siamo separati, preferisce altro. E ora come ora a me dispiace sopratutto per mia figlia che, come tutti i figli, non merita anche questo dolore e questa situazione sgradevole. Sì, perché gestire una situazione così é schifoso: non voglio che mia figlia sia il pacco postale della situazione. E mi viene mal di pancia a pensarci, e rabbia. Di recente sono ricaduta, sono tornata indietro di qualche passo, facevo progressi, ed invece... fortunatamente alcuni amici hanno ascoltato il mio ennesimo sfogo di rabbia. E’ successo un episodio spiacevole e, anche se spero il più tardi possibile, temo che la piccola venga a conoscere l’altra. Che schifo, una modernità che ho sempre accettato tranquillamente ma per gli altri, non riguardo a me stessa. Alle volte penso che sarebbe forse più facile per me se fossi anche io" moderna". Chissà cosa Dio ha in serbo per me… insomma, una situazione senza svolta. La strada é sempre la stessa, dura, difficile. Piena di amarezze e difficoltà. E poi rammarico, sensi di colpa verso la bambina. Credo proprio di aver sbagliato, ero accecata, innamorata e ingenua. Aver creduto che il suo fosse un amore maturo e per sempre. Adesso mi sembrano tutte cavolate, cose da favole. Ma la vita é altra cosa. Rileggo spesso la tua mail. Anche ora, sempre sul fatto "sta male chi fa il male"… perché in questi giorni se ne è andato a fare un viaggetto, a divertirsi con la sua nuova vita, e poi a me piange che non ha soldi, che ama nostra figlia…”
Anni fa, ero a teatro. Uno spettacolo d’avanguardia, creato da un amico regista. Un lavoro difficile, molto elaborato e benissimo riuscito. Ad un certo punto una frase che mi trafigge: “Ognuno si arrangia come può...” Era stata la mia vita per anni! Chiedo lumi, è tratta dal Caligola di Albert Camus. Non lo conosco, lo cerco: “Ciascuno conquista la sua purezza come può… E’ strano. Quando non uccido mi sento solo… non mi sento bene che tra i miei morti. Quelli sono veri. Sono come me… Io vivo, uccido, uso il potere forsennato del distruttore… Questa è la felicità: questa insopportabile liberazione, questo disprezzo universale; il sangue, l’odio intorno a me…”
Subito pensai ad una persona molto potente, che ben conoscevo, che nonostante una notevole intelligenza viveva col cuore eroso dalla rabbia cercando soluzione nel seminare il male. Impossibile, infatti non aveva mai pace. Sopravviveva con malvagità, ossessionato dal cercare sempre il male altrui.
Mi trovo ultimamente sempre più spesso ad asserire che “chi fa il male sta male”. Mi sembra lapalissiano, ed invece tante persone quasi provano un senso di invidia per chi “se ne frega”, commette il male, semina dolore. Mi si ribatte che sta male chi lo subisce, il torto! Evidente, ma credo non ci sia paragone: tra il generare dolore e il subirlo, sta peggio chi lo genera. Sembra strano a dire, ma posso assicurare che è così. Dipende da come si vive il dolore subìto, non altro.
E poi, onestamente: pensare che “chi fa il male sta bene, beato lui” significa dire che Dio non è. Negare il bene, negare Dio-Amore. D'altronde è pure vero il contrario: chi fa il bene sta bene, può stare bene.
Gandhi dice: “Non posso farti del male senza ferirmi, siamo una cosa sola”.
Siamo una cosa sola?! E allora cosa è possibile ancor più col sacramento?
(foto mia, Umbria 2008)
giovedì 9 maggio 2013
L'innamoramento e l'amore
Una domenica di pioggia, siamo fuori stagione, son costretto a cambiare programmi. Mi invento di fare un dolce per i ragazzi, in base a quanto ho disponibile.
Poi incidentalmente, tra una telefonata e un’altra, sul web mi trovo sotto gli occhi un titolo che non posso sorvolare: Non mi sposerò più. È di un blog ove si commenta un libro appena uscito, scritto da una giornalista che presumo stia vivendo dentro questa follia. Mi sento molto coinvolto e cedo alla tentazione di scrivere, dissentendo da quanto leggo: “…no a quei giuramenti assoluti su un sentimento che invece è tanto fragile… Bastava non essere sposati, bastava non credere in un ideale romantico”.
Ho la sensazione che in giro ci sia un poco di confusione. Perché dire “solo” di un sentimento, riguardo al matrimonio? Certo che è fragile, anzi fragilissimo: come può tenere in piedi una vita insieme? Questa società pare aver dimenticato l’altro aspetto del matrimonio, che è l’impegno. Ovvero: l’amore.
La mia generazione, tantissimi anni fa, parve apprendere molto dall’Erich Fromm di “Innamoramento e amore” (di cui non ricordo praticamente nulla) ma già il titolo dice tutto, comunque.
Oramai ci si ferma sempre e solo alla prima parte, l’innamoramento che, appunto, è altro dall’amore. Fondamentale nell’inizio di una relazione, ma se poi non si evolve in amore? E come è possibile vivere assieme un’esistenza?
Tempo fa mi trovai nel pieno di un’ennesima discussione tra due persone a me care. Reciprocamente si dicevano, anzi si urlavano, che se quarant’anni prima avessero saputo come era fatto l’altro… e tutto terminava con la classica imprecazione: ”Maledetto il giorno che ti ho sposato!”
Mi piace ricordare un grande uomo, Spartaco Lucarini. E una sua frase, tra le tante: “Il matrimonio comincia quando non si ama più la moglie solo perché piace, ma perché è la moglie”. Sembra una provocazione, specie di questi tempi. È la perfetta antitesi al “sentimento” imperante. Ma da quel che capisco direi che è proprio quanto serve, e troppo spesso manca, ai rapporti coniugali (e lo comprendo molto bene, dormendo solo da quasi dieci anni... non proprio una tranquilla passeggiata).
Che poi questa cosa va spiegata bene, e forse manco si comprende, se non si vive. Perché ad un certo punto l’amore produce innamoramento: dopo il passaggio sentimento / impegno… ritorna pure il sentimento! Il frutto dell’amore è infatti l’innamoramento, ovvero il sentimento profondo che non teme oblii né maremoti del cuore. Ovvero la realizzazione piena, che è sentimento e impegno, innamoramento e amore…
Il blog di cui sopra ha, tra i vari commenti: “Matrimonio stranezza sociologica. Mi appare una stranezza senza capo né coda. Privarsi della propria libertà. Volersi privare del proprio per spartirlo con qualcuno. Non solo i soldi, ma soprattutto lo spazio e il tempo. Se si è sposati, immagino che almeno un po’ di tempo insieme bisogna passarlo, inevitabilmente. Addirittura spartire il letto. Mi prenderebbe l’ansia e la claustrofobia solo a dover dividere la stanza, figuriamoci il letto. Non si è signori e padroni neanche di una stanza e di un letto. Razionalmente, credo che alcuni si sposano (o convivono) quando pianificano di avere figli, perché è già pesante in due, figuriamoci da soli. Forse alcuni si sposano perché si usa, come scrivono parecchi commentatori, ma anche ciò mi è incomprensibile. In fin dei conti è bello che siamo tutti diversi e ognuno con i propri gusti e stranezze”.
Già tanti anni fa, Alberto Sordi, alla ricorrente domanda sul suo non sposarsi, soavemente rispondeva: “Cheee? E che mi metto una sconosciuta dentro casa?” Praticamente, un precursore dei tempi.
Ma certo che sposarsi oggi è follia piena, evidente. Non ci sono più le certezze (?!) di un tempo, di solidità, di fedeltà, del “per sempre”. E forse è ancora più bello e più vero sposarsi oggi.
Auguri a chi lo fa, controcorrente. Ma soprattutto: testa sulle spalle, consapevolezza estrema, sincerità assoluta, disillusione e tanta capacità al sacrificio. E il “per sempre” può realizzarsi. Con grande gioia e pienezza di realizzazione.
Altrimenti chiamatemi, che vi spiego tutto (beh, quasi!) il negativo che può esservi tra un uomo e una donna. E come farlo divenire positivo.
Insieme. E per sempre.
(foto mia, Assisi 2009)
Poi incidentalmente, tra una telefonata e un’altra, sul web mi trovo sotto gli occhi un titolo che non posso sorvolare: Non mi sposerò più. È di un blog ove si commenta un libro appena uscito, scritto da una giornalista che presumo stia vivendo dentro questa follia. Mi sento molto coinvolto e cedo alla tentazione di scrivere, dissentendo da quanto leggo: “…no a quei giuramenti assoluti su un sentimento che invece è tanto fragile… Bastava non essere sposati, bastava non credere in un ideale romantico”.
Ho la sensazione che in giro ci sia un poco di confusione. Perché dire “solo” di un sentimento, riguardo al matrimonio? Certo che è fragile, anzi fragilissimo: come può tenere in piedi una vita insieme? Questa società pare aver dimenticato l’altro aspetto del matrimonio, che è l’impegno. Ovvero: l’amore.
La mia generazione, tantissimi anni fa, parve apprendere molto dall’Erich Fromm di “Innamoramento e amore” (di cui non ricordo praticamente nulla) ma già il titolo dice tutto, comunque.
Oramai ci si ferma sempre e solo alla prima parte, l’innamoramento che, appunto, è altro dall’amore. Fondamentale nell’inizio di una relazione, ma se poi non si evolve in amore? E come è possibile vivere assieme un’esistenza?
Tempo fa mi trovai nel pieno di un’ennesima discussione tra due persone a me care. Reciprocamente si dicevano, anzi si urlavano, che se quarant’anni prima avessero saputo come era fatto l’altro… e tutto terminava con la classica imprecazione: ”Maledetto il giorno che ti ho sposato!”
Mi piace ricordare un grande uomo, Spartaco Lucarini. E una sua frase, tra le tante: “Il matrimonio comincia quando non si ama più la moglie solo perché piace, ma perché è la moglie”. Sembra una provocazione, specie di questi tempi. È la perfetta antitesi al “sentimento” imperante. Ma da quel che capisco direi che è proprio quanto serve, e troppo spesso manca, ai rapporti coniugali (e lo comprendo molto bene, dormendo solo da quasi dieci anni... non proprio una tranquilla passeggiata).
Che poi questa cosa va spiegata bene, e forse manco si comprende, se non si vive. Perché ad un certo punto l’amore produce innamoramento: dopo il passaggio sentimento / impegno… ritorna pure il sentimento! Il frutto dell’amore è infatti l’innamoramento, ovvero il sentimento profondo che non teme oblii né maremoti del cuore. Ovvero la realizzazione piena, che è sentimento e impegno, innamoramento e amore…
Il blog di cui sopra ha, tra i vari commenti: “Matrimonio stranezza sociologica. Mi appare una stranezza senza capo né coda. Privarsi della propria libertà. Volersi privare del proprio per spartirlo con qualcuno. Non solo i soldi, ma soprattutto lo spazio e il tempo. Se si è sposati, immagino che almeno un po’ di tempo insieme bisogna passarlo, inevitabilmente. Addirittura spartire il letto. Mi prenderebbe l’ansia e la claustrofobia solo a dover dividere la stanza, figuriamoci il letto. Non si è signori e padroni neanche di una stanza e di un letto. Razionalmente, credo che alcuni si sposano (o convivono) quando pianificano di avere figli, perché è già pesante in due, figuriamoci da soli. Forse alcuni si sposano perché si usa, come scrivono parecchi commentatori, ma anche ciò mi è incomprensibile. In fin dei conti è bello che siamo tutti diversi e ognuno con i propri gusti e stranezze”.
Già tanti anni fa, Alberto Sordi, alla ricorrente domanda sul suo non sposarsi, soavemente rispondeva: “Cheee? E che mi metto una sconosciuta dentro casa?” Praticamente, un precursore dei tempi.
Ma certo che sposarsi oggi è follia piena, evidente. Non ci sono più le certezze (?!) di un tempo, di solidità, di fedeltà, del “per sempre”. E forse è ancora più bello e più vero sposarsi oggi.
Auguri a chi lo fa, controcorrente. Ma soprattutto: testa sulle spalle, consapevolezza estrema, sincerità assoluta, disillusione e tanta capacità al sacrificio. E il “per sempre” può realizzarsi. Con grande gioia e pienezza di realizzazione.
Altrimenti chiamatemi, che vi spiego tutto (beh, quasi!) il negativo che può esservi tra un uomo e una donna. E come farlo divenire positivo.
Insieme. E per sempre.
(foto mia, Assisi 2009)
giovedì 2 maggio 2013
Le cose di prima
È diverso tempo che non pubblico. Ne ho coscienza piena, e un quasi senso di colpa, sottile, che tutti i giorni mi rammenta di questo mio impegno.
Vero che potrei scrivere più rado, e più spesso.
Forse il web richiede più questo che il mio scrivere elaborato, figlio di sentimenti e situazioni del cuore. Vedremo.
In questo periodo di latenza ho scritto diversi post, dopo non chiusi come avrei voluto. Son lì, sospesi. Poi il pensiero che dovevo scrivere, che c’era qualcuno che da qualche parte aspettava di leggermi, cosa bellissima e piacevole, alla fine soffocava tutto divenendo una responsabilità troppo grande. Insomma, una inconcludenza insolita, che però vedo positiva. Un concentrarsi sulla vita, sino in fondo.
Mi trovo impegnato in cento cose. Non ultimo: sto, lentamente purtroppo, rimettendo in funzione la mia vecchia camera oscura, son circa trentacinque anni che attende. Ma forse i tempi son davvero maturi. Torno alla fotografia analogica, al mio amato bianco e nero in cui avevo acquisito una certa maestria. Controcorrente, rispetto al dilagante digitale, che mi è comunque oramai insostituibile per tanti “usi generali”.
Oltretutto ho vissuto giornate estremamente difficili, in cui il peso del quotidiano sembrava intollerabile. Situazioni forse banali che però divenivano ingestibili. E alla fine rendersi conto di dover in qualche maniera rigenerarsi a vita nuova, ancora una volta. Mai si è arrivati, sempre si ricomincia. E qualche volta un poco di più. Nuovi equilibri interiori, nuovi orizzonti, sempre meno confinati.
Ma ho consapevolezza piena della vita: la mia, le nostre vite, che stanno rapidamente passando. Vite non facili a volte, con spaccature profonde e forse senza guarigione. Per me auguro che alla fine solo contino tutti i milioni di “momento presente”, di istanti susseguitisi nella mia storia in cui ho messo Iddio prima di tutto il resto.
Negli scorsi giorni una canzone di Roberto Vecchioni mi pareva molto vicina al mio vivere, “Le rose blu” (facile ascoltarla su youtube). E il suo presentarla ad un concerto (è riferita ad un figlio, ma la leggo più in generale): «Adesso farò una cosa che non è nemmeno una canzone.. è molto di più... ed è una cosa nata in un momento di grande sofferenza nella vita di uno dei miei figli... Non credo che esista al mondo un dolore più grande di vedere soffrire una persona che si ama... soprattutto se è un figlio... Te ne stai lì... ti chiudi... il sangue che scorre... i nervi si accavallano... i muscoli fermi... E allora mandi una preghiera che sembra una bestemmia... o una bestemmia che sembra una preghiera... all’unica cosa che pensi che ti possa ascoltare... che poi si chiama Dio... e devi dare a Dio tantissimo per avere in cambio qualcosa per tuo figlio... non gli puoi dare in cambio solo la vita... è troppo facile... e allora gli dai in cambio tutto quello che hai vissuto... che è differente... come se non avessi mai amato... mai sognato... mai cantato... mai visto una donna... mai visto un bambino... mai visto la primavera... mai visto il mare... come se non fossi mai nato... oppure fossi nato ma come un lombrico... un verme... una schifezza di essere... e gli chiedi in cambio... per questo dare via tutto... quell’altra cosa... Perché arriva un momento che non te ne frega niente della bellezza della poesia... e i sogni... e di tutte le piccole cose importanti che hanno fatto la tua esistenza…»
Poi, dalla liturgia domenicale, l’Apocalisse di Giovanni: “E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»”.
(foto mia, Norcia 2007)
Vero che potrei scrivere più rado, e più spesso.
Forse il web richiede più questo che il mio scrivere elaborato, figlio di sentimenti e situazioni del cuore. Vedremo.
In questo periodo di latenza ho scritto diversi post, dopo non chiusi come avrei voluto. Son lì, sospesi. Poi il pensiero che dovevo scrivere, che c’era qualcuno che da qualche parte aspettava di leggermi, cosa bellissima e piacevole, alla fine soffocava tutto divenendo una responsabilità troppo grande. Insomma, una inconcludenza insolita, che però vedo positiva. Un concentrarsi sulla vita, sino in fondo.
Mi trovo impegnato in cento cose. Non ultimo: sto, lentamente purtroppo, rimettendo in funzione la mia vecchia camera oscura, son circa trentacinque anni che attende. Ma forse i tempi son davvero maturi. Torno alla fotografia analogica, al mio amato bianco e nero in cui avevo acquisito una certa maestria. Controcorrente, rispetto al dilagante digitale, che mi è comunque oramai insostituibile per tanti “usi generali”.
Oltretutto ho vissuto giornate estremamente difficili, in cui il peso del quotidiano sembrava intollerabile. Situazioni forse banali che però divenivano ingestibili. E alla fine rendersi conto di dover in qualche maniera rigenerarsi a vita nuova, ancora una volta. Mai si è arrivati, sempre si ricomincia. E qualche volta un poco di più. Nuovi equilibri interiori, nuovi orizzonti, sempre meno confinati.
Ma ho consapevolezza piena della vita: la mia, le nostre vite, che stanno rapidamente passando. Vite non facili a volte, con spaccature profonde e forse senza guarigione. Per me auguro che alla fine solo contino tutti i milioni di “momento presente”, di istanti susseguitisi nella mia storia in cui ho messo Iddio prima di tutto il resto.
Negli scorsi giorni una canzone di Roberto Vecchioni mi pareva molto vicina al mio vivere, “Le rose blu” (facile ascoltarla su youtube). E il suo presentarla ad un concerto (è riferita ad un figlio, ma la leggo più in generale): «Adesso farò una cosa che non è nemmeno una canzone.. è molto di più... ed è una cosa nata in un momento di grande sofferenza nella vita di uno dei miei figli... Non credo che esista al mondo un dolore più grande di vedere soffrire una persona che si ama... soprattutto se è un figlio... Te ne stai lì... ti chiudi... il sangue che scorre... i nervi si accavallano... i muscoli fermi... E allora mandi una preghiera che sembra una bestemmia... o una bestemmia che sembra una preghiera... all’unica cosa che pensi che ti possa ascoltare... che poi si chiama Dio... e devi dare a Dio tantissimo per avere in cambio qualcosa per tuo figlio... non gli puoi dare in cambio solo la vita... è troppo facile... e allora gli dai in cambio tutto quello che hai vissuto... che è differente... come se non avessi mai amato... mai sognato... mai cantato... mai visto una donna... mai visto un bambino... mai visto la primavera... mai visto il mare... come se non fossi mai nato... oppure fossi nato ma come un lombrico... un verme... una schifezza di essere... e gli chiedi in cambio... per questo dare via tutto... quell’altra cosa... Perché arriva un momento che non te ne frega niente della bellezza della poesia... e i sogni... e di tutte le piccole cose importanti che hanno fatto la tua esistenza…»
Poi, dalla liturgia domenicale, l’Apocalisse di Giovanni: “E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»”.
(foto mia, Norcia 2007)
martedì 2 aprile 2013
Quelli del Sabato Santo
Venerdì Santo. Mi telefona un amico. Esploso un problema davvero serio con la moglie. Son rimasto attonito, penso soprattutto al buco nel cuore che avrà questa creatura, e al dolore che in tutta la famiglia ora circola. Capisco tante cose, ma di parole ne trovo poche, si può solo “stare”.
In serata, riunione di famiglia, seppur senza figlio che sta dall’altra parte del globo. Mi è capitato, pochi istanti, di avere davanti agli occhi la via Crucis del Papa al Colosseo. Il cuore in tumulto, specie stasera, queste celebrazioni della settimana santa. Poi arrivo in casa, cerco musica “consona” e tra le mani ho subito lo “Stabat Mater”. Evidente che devo scriverne.
Ecco: lo Stabat Mater, la situazione del separato che vive diviso da sé stesso: “…Così che non sono più due, ma una carne sola” e poi, a un certo punto accade qualcosa, e non lo sono più. Una sola carne squarciata, divisa in due.
Maria credo avrà vissuto una cosa analoga, in una situazione certo decisamente diversa… ma quel Figlio era “carne della sua carne” e in maniera assolutamente unica, essendolo al cento per cento.
Se in una parola sola dovessi dire chi è il separato, senza dubbio: Maria.
Maria nello Stabat Mater sul Golgota, ma ancor più nel suo Sabato Santo, ovvero nei tre giorni (e tre notti!) che seguono la morte in croce del Figlio e specie il suo urlo dell’Abbandono.
Maria che esegue le ultime volontà del Figlio, e continua a vivere nell’amore totale, presumo col cuore sanguinante, prendendo da subito Giovanni in casa con sé, e quindi l’umanità tutta, mentre il Figlio scende agli inferi…
Come avrà vissuto? Cosa poteva immaginare di quel Figlio che proprio lei, più di chiunque altri, sapeva essere così “anomalo”, nell’udirlo gridare l’Abbandono dal Padre e poi morire?
Chiuso nel sepolcro, svanito… per sempre?
Ha immerso il suo strazio nel sangue dell’umanità, divenuta Madre di tutti nell’amare senza misura ognuno come fosse carne della sua carne.
Nell’editoriale pasquale del nostro amico Direttore (una moderna meditazione condivisa “urbi et orbi”… ripresa pure in qualche omelia del giorno di Pasqua!) trovo spunti affascinanti, ma soprattutto una bellissima e nitida fotografia che mi tocca da vicino, quando parla dei Custodi del Sabato Santo: “Che cosa può suggerirci il silenzio del Sabato Santo? La sospensione è totale, è lo spazio del tempo: quello che si frappone tra la morte e la risurrezione. È il tempo che va vissuto senza risposte alle nostre domande, o addirittura senza domande, semplicemente essendo, vivendo il momento presente. Custodendo la solitudine, la sospensione, l’incertezza.”
Questa l’umanità di oggi.
Ma questa pure l’esistenza del separato, novello e involontario profeta del nostro tempo.
(foto mia, Abruzzo 2006)
In serata, riunione di famiglia, seppur senza figlio che sta dall’altra parte del globo. Mi è capitato, pochi istanti, di avere davanti agli occhi la via Crucis del Papa al Colosseo. Il cuore in tumulto, specie stasera, queste celebrazioni della settimana santa. Poi arrivo in casa, cerco musica “consona” e tra le mani ho subito lo “Stabat Mater”. Evidente che devo scriverne.
Ecco: lo Stabat Mater, la situazione del separato che vive diviso da sé stesso: “…Così che non sono più due, ma una carne sola” e poi, a un certo punto accade qualcosa, e non lo sono più. Una sola carne squarciata, divisa in due.
Maria credo avrà vissuto una cosa analoga, in una situazione certo decisamente diversa… ma quel Figlio era “carne della sua carne” e in maniera assolutamente unica, essendolo al cento per cento.
Se in una parola sola dovessi dire chi è il separato, senza dubbio: Maria.
Maria nello Stabat Mater sul Golgota, ma ancor più nel suo Sabato Santo, ovvero nei tre giorni (e tre notti!) che seguono la morte in croce del Figlio e specie il suo urlo dell’Abbandono.
Maria che esegue le ultime volontà del Figlio, e continua a vivere nell’amore totale, presumo col cuore sanguinante, prendendo da subito Giovanni in casa con sé, e quindi l’umanità tutta, mentre il Figlio scende agli inferi…
Come avrà vissuto? Cosa poteva immaginare di quel Figlio che proprio lei, più di chiunque altri, sapeva essere così “anomalo”, nell’udirlo gridare l’Abbandono dal Padre e poi morire?
Chiuso nel sepolcro, svanito… per sempre?
Ha immerso il suo strazio nel sangue dell’umanità, divenuta Madre di tutti nell’amare senza misura ognuno come fosse carne della sua carne.
Nell’editoriale pasquale del nostro amico Direttore (una moderna meditazione condivisa “urbi et orbi”… ripresa pure in qualche omelia del giorno di Pasqua!) trovo spunti affascinanti, ma soprattutto una bellissima e nitida fotografia che mi tocca da vicino, quando parla dei Custodi del Sabato Santo: “Che cosa può suggerirci il silenzio del Sabato Santo? La sospensione è totale, è lo spazio del tempo: quello che si frappone tra la morte e la risurrezione. È il tempo che va vissuto senza risposte alle nostre domande, o addirittura senza domande, semplicemente essendo, vivendo il momento presente. Custodendo la solitudine, la sospensione, l’incertezza.”
Questa l’umanità di oggi.
Ma questa pure l’esistenza del separato, novello e involontario profeta del nostro tempo.
(foto mia, Abruzzo 2006)
martedì 19 marzo 2013
La madre superiora
Son qui davanti al computer, a scrivere, ancora. In questo squarcio di esistenza è la cosa più importante che poteva accadermi, imprevista, imprevedibile. Pure oggi più persone mi hanno ringraziato, e io ringrazio Iddio di quanto accade. Sono strumento, piccolo, ignaro, commosso.
Giornata di corse, due volte da mia figlia, coi piccoli che in qualche maniera richiedevano l’intervento del nonno, ma… tutto secondo copione!
Ricordo papà e mamma, nonni d’eccezione. Quando dovevano fare da baby sitter giungevano da noi alle 7,30 di mattina, forse pure prima. Attraversando Roma con i mezzi pubblici, significava partire almeno alle 6,30, col freddo o con la pioggia era uguale. Avevano due piccoli, con diciotto mesi di differenza, da gestire. Disponibilità assoluta, e mai a mani vuote. E noi genitori si partiva per il lavoro.
Tempo fa, una cena con amici e amiche. Una di noi, suora, ci comunicò che a breve sarebbe partita, la madre superiora aveva disposto che lei andasse altrove. Ci fu una sollevazione popolare! Nessuno voleva vederla partire, troppo preziosa lei, la sua presenza, la sua opera. Ma lei spiazzò tutti: quel che decide la madre superiora è legge. La mia vita: in essa la volontà di Dio su di me.
Ecco, di colpo l’illuminazione che anch’io avevo la mia brava madre superiora: la mia sposa. Questo è il matrimonio, un po’ come entrare in convento, anzi forse più stretto, se possibile. Nel convento puoi trovare situazioni difficili, ma comunque sempre sperare che prima o poi migliorino. Quando ti sposi è una persona sola, rapporto 1:1, per sempre. Un bel casino! E se poi scopri di aver sposato una persona estranea? Se ti senti incompatibile? E se poi ti lascia? E se poi tu ti innamori altrove?
Mi scrive una cara amica. "Carissimo Paolo, non é la prima volta che proponi di stare a pranzo insieme ed io non ti rispondo subito, perché mi riprometto di trovare un posticino per me, per incontrare un amico e trascorrere due ore piacevoli; poi passano i giorni, i mesi addirittura ed io sono sempre qui che cerco uno spazio da dedicarmi. Vedi, per un padre è più semplice perché non ha con sé i figli. Io credimi: corro come una pazza tutta la settimana, tra compiti, il lavoro, panni da stirare, casa da pulire, i piccoli da accompagnare ovunque... Sto diventando letteralmente matta, oltretutto mi ritrovo a gestire quotidianamente il mio grande dolore e tanta solitudine, ma soprattutto quello dei figli. A volte sono stremata, non ce la faccio a mantenere la pazienza anche con loro, povere le mie stelle; e allora sensi di colpa a non finire... Soprattutto di sera sono molto stanca... e mi assale una malinconia da non credere... quando vedo le porte chiuse delle case e percepisco che lì dentro c'è una famiglia al completo attorno ad una tavola... può essere la famiglia più stramba, più problematica al mondo, ma è pur sempre completa, e quel che apprezzi in queste situazioni è la loro voglia di combattere ogni giorno contro i problemi... insieme!!!! Pensi che riuscirò mai ad uscire da questi stati d'animo, Paolo? Lo spero proprio... Ma è comunque difficile. Avrei tanto bisogno di parlarti, perché tu, già dai post che pubblichi sul blog mi trasmetti tanto!!!! E ti ringrazio perché in questo mondo ovunque ti giri alla ricerca disperata di una parolina che ti illumini la mente, trovi persone che ti rispondono: ma mandalo a quel paese!!!! Trovane un altro!!! Non pensare più a lui..."
Ho già scritto del dolore in una donna abbandonata, che ritengo più grande che in un uomo abbandonato. Non solo per l’amore grande che ho per “la donna”. Ma perché oggettivamente così, con tutti gli annessi e connessi.
A volte urla pure il corpo, lo so bene, oltre il cuore sventrato. D'altronde non è facile mai digerire un tale cambio di programma nella vita… un po’ come le decisioni della madre superiora?
(foto mia, Umbria 2006)
Giornata di corse, due volte da mia figlia, coi piccoli che in qualche maniera richiedevano l’intervento del nonno, ma… tutto secondo copione!
Ricordo papà e mamma, nonni d’eccezione. Quando dovevano fare da baby sitter giungevano da noi alle 7,30 di mattina, forse pure prima. Attraversando Roma con i mezzi pubblici, significava partire almeno alle 6,30, col freddo o con la pioggia era uguale. Avevano due piccoli, con diciotto mesi di differenza, da gestire. Disponibilità assoluta, e mai a mani vuote. E noi genitori si partiva per il lavoro.
Tempo fa, una cena con amici e amiche. Una di noi, suora, ci comunicò che a breve sarebbe partita, la madre superiora aveva disposto che lei andasse altrove. Ci fu una sollevazione popolare! Nessuno voleva vederla partire, troppo preziosa lei, la sua presenza, la sua opera. Ma lei spiazzò tutti: quel che decide la madre superiora è legge. La mia vita: in essa la volontà di Dio su di me.
Ecco, di colpo l’illuminazione che anch’io avevo la mia brava madre superiora: la mia sposa. Questo è il matrimonio, un po’ come entrare in convento, anzi forse più stretto, se possibile. Nel convento puoi trovare situazioni difficili, ma comunque sempre sperare che prima o poi migliorino. Quando ti sposi è una persona sola, rapporto 1:1, per sempre. Un bel casino! E se poi scopri di aver sposato una persona estranea? Se ti senti incompatibile? E se poi ti lascia? E se poi tu ti innamori altrove?
Mi scrive una cara amica. "Carissimo Paolo, non é la prima volta che proponi di stare a pranzo insieme ed io non ti rispondo subito, perché mi riprometto di trovare un posticino per me, per incontrare un amico e trascorrere due ore piacevoli; poi passano i giorni, i mesi addirittura ed io sono sempre qui che cerco uno spazio da dedicarmi. Vedi, per un padre è più semplice perché non ha con sé i figli. Io credimi: corro come una pazza tutta la settimana, tra compiti, il lavoro, panni da stirare, casa da pulire, i piccoli da accompagnare ovunque... Sto diventando letteralmente matta, oltretutto mi ritrovo a gestire quotidianamente il mio grande dolore e tanta solitudine, ma soprattutto quello dei figli. A volte sono stremata, non ce la faccio a mantenere la pazienza anche con loro, povere le mie stelle; e allora sensi di colpa a non finire... Soprattutto di sera sono molto stanca... e mi assale una malinconia da non credere... quando vedo le porte chiuse delle case e percepisco che lì dentro c'è una famiglia al completo attorno ad una tavola... può essere la famiglia più stramba, più problematica al mondo, ma è pur sempre completa, e quel che apprezzi in queste situazioni è la loro voglia di combattere ogni giorno contro i problemi... insieme!!!! Pensi che riuscirò mai ad uscire da questi stati d'animo, Paolo? Lo spero proprio... Ma è comunque difficile. Avrei tanto bisogno di parlarti, perché tu, già dai post che pubblichi sul blog mi trasmetti tanto!!!! E ti ringrazio perché in questo mondo ovunque ti giri alla ricerca disperata di una parolina che ti illumini la mente, trovi persone che ti rispondono: ma mandalo a quel paese!!!! Trovane un altro!!! Non pensare più a lui..."
Ho già scritto del dolore in una donna abbandonata, che ritengo più grande che in un uomo abbandonato. Non solo per l’amore grande che ho per “la donna”. Ma perché oggettivamente così, con tutti gli annessi e connessi.
A volte urla pure il corpo, lo so bene, oltre il cuore sventrato. D'altronde non è facile mai digerire un tale cambio di programma nella vita… un po’ come le decisioni della madre superiora?
(foto mia, Umbria 2006)
giovedì 14 marzo 2013
La luce di marzo
Di ritorno da casa di mia figlia. Ero rimasto lì ad occuparmi del piccolo di venti giorni, e permettere a tutti di cenare in tranquillità. Veramente mi dava molto piacere tenerlo, un tenerino che stava un poco agitato, e poi mi si è addormentato tra le braccia.
Son venuto via presto, che a casa molte cose da sistemare mi attendevano, tra cui questo scrivere.
Ho ricevuto il messaggio di un’amica: “Paolo, abbiamo il Papa!”. E quindi poi la trepidazione di sapere “chi”. Debbo dire: commozione. Intanto, altro rispetto ai patetici pronostici giornalistici, basati su ragionamenti, forse pure logici, ma molto terranei e quindi fallaci e ignoranti delle cose di Dio. Poi vederlo lì, decisamente spaesato, imprevisto. Vero, umano. Un gesuita di “nome nuovo” Francesco! E preso “quasi alla fine del mondo”!
Già da qualche giorno, al mattino alle sette, quando esco di casa, e non piove, vedo spuntare il sole dalle colline, una novità bellissima: sino a poco fa era notte! Forse è l’invecchiare, forse la solitudine, forse il gelo, l’umidità, ma amo sempre meno l’inverno. Certe mattine è dura, che è presto, che è freddo. Eppure si va. Parlo da solo, ma è inevitabile. E spesso mi colgo in un sorriso. Mi chiedo: come potrei affrontare la giornata, e la vita, senza Dio? Col cuore pesante farmi scorrere l’intera esistenza?
“Sperimentare la solitudine, quella vera, che corrode il cuore anche in mezzo ai richiami sempre più pressanti di migliaia di esseri che ci somigliano, ma il cuore non riconosce simili. … momenti in cui la consapevolezza di esistere diventa un peso insostenibile e ogni cosa urla dolore insieme a noi.”
L’inverno che mai termina, davvero “gli ultimi confini della terra”.
Certo, poi non posso non tornare al senso dell’esistere, vista la rapidità con cui mi terminano le giornate (e presumo di tutti, ovunque). E quindi assume una rinnovata sacralità, e forse immortalità, ogni momento che vivo “oltre”, che vivo fuori di me, che vivo “Altro”. Mi appare incredibile, eppure mi trovo persino a guidare la macchina con molta calma, cosa che in anni passati pareva impossibile.
A Madre Teresa che toccava i lebbrosi, curandoli, qualcuno disse che nemmeno per un milione di dollari lo avrebbe fatto. Rispose che pure lei non lo avrebbe fatto, nemmeno per il doppio, se fosse stato per denaro.
La luce di marzo. Eccola primavera, di nuovo, ancora.
(foto mia, monte Subasio 2011)
Ho ricevuto il messaggio di un’amica: “Paolo, abbiamo il Papa!”. E quindi poi la trepidazione di sapere “chi”. Debbo dire: commozione. Intanto, altro rispetto ai patetici pronostici giornalistici, basati su ragionamenti, forse pure logici, ma molto terranei e quindi fallaci e ignoranti delle cose di Dio. Poi vederlo lì, decisamente spaesato, imprevisto. Vero, umano. Un gesuita di “nome nuovo” Francesco! E preso “quasi alla fine del mondo”!
Già da qualche giorno, al mattino alle sette, quando esco di casa, e non piove, vedo spuntare il sole dalle colline, una novità bellissima: sino a poco fa era notte! Forse è l’invecchiare, forse la solitudine, forse il gelo, l’umidità, ma amo sempre meno l’inverno. Certe mattine è dura, che è presto, che è freddo. Eppure si va. Parlo da solo, ma è inevitabile. E spesso mi colgo in un sorriso. Mi chiedo: come potrei affrontare la giornata, e la vita, senza Dio? Col cuore pesante farmi scorrere l’intera esistenza?
“Sperimentare la solitudine, quella vera, che corrode il cuore anche in mezzo ai richiami sempre più pressanti di migliaia di esseri che ci somigliano, ma il cuore non riconosce simili. … momenti in cui la consapevolezza di esistere diventa un peso insostenibile e ogni cosa urla dolore insieme a noi.”
L’inverno che mai termina, davvero “gli ultimi confini della terra”.
Certo, poi non posso non tornare al senso dell’esistere, vista la rapidità con cui mi terminano le giornate (e presumo di tutti, ovunque). E quindi assume una rinnovata sacralità, e forse immortalità, ogni momento che vivo “oltre”, che vivo fuori di me, che vivo “Altro”. Mi appare incredibile, eppure mi trovo persino a guidare la macchina con molta calma, cosa che in anni passati pareva impossibile.
A Madre Teresa che toccava i lebbrosi, curandoli, qualcuno disse che nemmeno per un milione di dollari lo avrebbe fatto. Rispose che pure lei non lo avrebbe fatto, nemmeno per il doppio, se fosse stato per denaro.
La luce di marzo. Eccola primavera, di nuovo, ancora.
(foto mia, monte Subasio 2011)
lunedì 4 marzo 2013
Il Regno dei cieli è vicino
Negli scorsi giorni doveva nascere il secondo nipote, sapevo che mia figlia stava andando in ospedale, il tempo era giunto. Poi la telefonata: è nato. Ho preso un permesso, son corso. C’ero solo io. Mi pareva quando nel Vangelo si dice che Giovanni aveva corso più degli altri, era arrivato prima. Ma ci ho riso da solo: qui non c’era merito particolare, casuale. Ho piuttosto avuto la fortuna di godermi una scena unica, peccato non avere come fotografare e immortalare (in realtà avevo la macchina con me, ma era nello zainetto… argh, gravissimo!). All’uscita dalla sala parto, uno spettacolo imprevisto: lei sul letto spinto da infermiera, sorridente, serena. E il piccolo in braccio al padre. Da subito. Ai miei tempi era inimmaginabile! Ecco: il mondo è andato avanti.
Poi nel pomeriggio è arrivato Titto, il primogenito, due anni. Sapeva che nasceva il fratellino, glielo avevano spiegato, aveva sentito la pancia… ma possibile così piccolo e così buffo? Poi piangeva pure! Lui stava attonito, un nuovo mondo… e di colpo si è trovato grande: tutto è relativo, bisognerà spiegarglielo, un giorno.
Sono stato ad un convegno di famiglie. Qualcuno in perfetta buonafede mi ha chiesto come mai ci stavo, dato che evidentemente la mia condizione di separato strideva col concetto di famiglia.
Ci ho ragionato, è servito. E mi sono reso conto che quello è il mio posto, il posto dei separati.
La famiglia è anche questo, non ci eravamo né abituati né preparati. Ma tutti, sposandoci, abbiamo letto con voce alta, magari commossa: “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”.
E sono certo che nessuno mai pensa che malattia e dolore lambiranno la propria vita coniugale. Ci si sposa gonfi di felicità, i problemi saranno per altri, mica per noi, noi ci vogliamo così bene!
Invece il dolore è lì, pronto, basta vivere. La salute con gli anni non migliora di sicuro. E il matrimonio può divenire la tomba dell’amore, piuttosto che la fonte dell'amore sempre nuovo e sempre in crescita.
Ma la famiglia rimane, anzi. Questo mio vivere solo mi pone in una situazione drammatica ma generatrice di vita, dolorosissima ma serena. Anzi no, è molto di più, è la certezza di fare le cose giuste, di stare dentro la famiglia più bella della terra, perché è la “mia” famiglia e ne sono innamorato e non la cambierei con nessuna al mondo.
E non significa famiglia perfetta, o di geni, o di santi. Significa che questa è la “mia” famiglia e per essa vivo, e devo vivere, prima di qualsiasi altra cosa.
La separazione, il divorzio, non cambiano la mia famiglia. Anzi, la introducono a pieno titolo nel mistero del Golgota, lì dove si è compiuta la storia degli uomini. Si è compiuta e si compie ogni giorno, ogni istante che l’amore continua: oltre la morte, lo sbeffeggiamento, la derisione, oltre le lacrime, le urla, il senso di impotenza, l’annientamento.
E quindi, poi, la Resurrezione. La morte è questo, no? Il passaggio, poi si risorge, lo sappiamo. Ma qualcuno deve rimanere nell’amore. Quei tre giorni e tre notti della morte, della discesa agli inferi, qualcuno sulla terra era rimasto nell’amore: la Madre. Che forse non sapeva e non capiva, ma aveva preso Giovanni con sé: l’amore. Appunto: la famiglia.
Se la mia avesse continuato ad essere “normale” (concetto che temo dovremo rivedere), stasera non sarei qui a scrivere, con la Messa da Requiem di Verdi che mi suona tutta attorno, grandiosa.
E non riceverei anche grandi inaspettate gioie. Una persona, a me sconosciuta, è venuta a dirmi, e stava col cuore in mano, si vedeva: “Grazie di farmi entrare nella tua casa!” Grazie a te, l’amore circola!
La liturgia ricordava che il Regno dei cieli è vicino. Lo sappiamo da duemila anni. Stasera mi pare proprio vicinissimo.
(foto mia, inverno 2012)
lunedì 11 febbraio 2013
Chi saprà mai ridire
Sono in treno, sta imbrunendo rapidamente, sulle cime delle montagne lassù tanta neve. Non ho il mio solito pc, scrivo col pennarello verde dono di un’amica. Ho il cuore che trabocca, scrivo.
Altro week end d’amore. Son partito ieri mattina molto prima dell’alba, tornerò a mezzanotte se tutto va bene.
In una condizione di vita “normale” il sabato mattina non sarei andato, circondato da ghiaccio, a prendere un treno per recarmi lontano: sarei stato nel mio letto, con la mia sposa. Per poi alzarmi con comodo, preparare il caffè, portarglielo a letto.
Invece vivo in un film incredibile, che non ho scritto io, e nemmeno immaginato.
Per essere sicuro di svegliarmi ho messo due sveglie, e chiesto a mio figlio di telefonarmi: sta dall’altra parte del globo, per lui è pieno giorno. Ma tanto ero sveglio!
Tra l’altro negli scorsi giorni ho avuto un piccolo incidente domestico, e credo di avere una costola lesionata, in un punto molto doloroso. Pomate e antidolorifici, nulla pare attenuare. Ma credo faccia parte del gioco pure questo.
Da qualche tempo mi trovo a vivere realtà più grandi di me. O forse le vivevo già, ma diversa è la consapevolezza.
Quando incontro esistenze con dolori, tanti e immani, e l’animo mi si apre e pare non avere fine.
Quando incontro lacrime e sorrisi, sorrisi “anomali” che scaturiscono da vite immolate all’Amore, con radici a volte “umanamente” impossibili.
Quando stabilisco rapporti, istantanei e abissali, con persone mai viste e di cui poi scordo il nome (ahhh i miei poveri neuroni sofferenti... vorrei però dire con Ungaretti “ma nel cuore nessuna croce manca”!)
So che il dolore dell’uomo, e più della donna, è realtà troppo grande per le mie forze, ed entrarvi dentro è il minimo possibile. Vorrei avere la bacchetta magica e riunire sposi e famiglie. Toglierei tutti i dolori, tutti, pure quelli di chi il dolore lo genera, e poi lo soffre più grande ancora.
Ma tutto ciò è assolutamente impossibile, e pure sbagliato: Dio ha donato all’uomo la libertà, e nessuno può toglierla. Che poi conduce ove vuole, e il dolore sulla terra è tanto.
E di questo si parla, del grande “Perché?” che tutti, ovunque, accomuna.
C’è un clima particolarissimo: tutto questo dolore in circolo, il più delle volte risolto e fonte di vita, crea atmosfere indicibili. Questa è la realtà vera, ove l’amore vive reciproco, sanificante, indisturbato.
Quando poi son partito avrei voluto abbracciare e baciare tutti, uno ad uno. Ma lo faccio ora: grazie a voi!
Le dinamiche dell’Amore. Mi rendo conto che è molto, molto più il ricevuto di quel poco, eventuale, donato.
Era lì tra noi il cuore del mondo,
perché lì era la croce del mondo,
perché lì era l'amore del mondo.
E mi risuona dentro, impellente, prepotente, e viene da lontano: “Chi saprà mai ridire le infinite bellezze e novità, gli orizzonti sterminati che contempla un’anima abbandonata all’avventura divina della divina volontà?”
(da una foto mia, agosto 2009)
Altro week end d’amore. Son partito ieri mattina molto prima dell’alba, tornerò a mezzanotte se tutto va bene.
In una condizione di vita “normale” il sabato mattina non sarei andato, circondato da ghiaccio, a prendere un treno per recarmi lontano: sarei stato nel mio letto, con la mia sposa. Per poi alzarmi con comodo, preparare il caffè, portarglielo a letto.
Invece vivo in un film incredibile, che non ho scritto io, e nemmeno immaginato.
Per essere sicuro di svegliarmi ho messo due sveglie, e chiesto a mio figlio di telefonarmi: sta dall’altra parte del globo, per lui è pieno giorno. Ma tanto ero sveglio!
Tra l’altro negli scorsi giorni ho avuto un piccolo incidente domestico, e credo di avere una costola lesionata, in un punto molto doloroso. Pomate e antidolorifici, nulla pare attenuare. Ma credo faccia parte del gioco pure questo.
Da qualche tempo mi trovo a vivere realtà più grandi di me. O forse le vivevo già, ma diversa è la consapevolezza.
Quando incontro esistenze con dolori, tanti e immani, e l’animo mi si apre e pare non avere fine.
Quando incontro lacrime e sorrisi, sorrisi “anomali” che scaturiscono da vite immolate all’Amore, con radici a volte “umanamente” impossibili.
Quando stabilisco rapporti, istantanei e abissali, con persone mai viste e di cui poi scordo il nome (ahhh i miei poveri neuroni sofferenti... vorrei però dire con Ungaretti “ma nel cuore nessuna croce manca”!)
So che il dolore dell’uomo, e più della donna, è realtà troppo grande per le mie forze, ed entrarvi dentro è il minimo possibile. Vorrei avere la bacchetta magica e riunire sposi e famiglie. Toglierei tutti i dolori, tutti, pure quelli di chi il dolore lo genera, e poi lo soffre più grande ancora.
Ma tutto ciò è assolutamente impossibile, e pure sbagliato: Dio ha donato all’uomo la libertà, e nessuno può toglierla. Che poi conduce ove vuole, e il dolore sulla terra è tanto.
E di questo si parla, del grande “Perché?” che tutti, ovunque, accomuna.
C’è un clima particolarissimo: tutto questo dolore in circolo, il più delle volte risolto e fonte di vita, crea atmosfere indicibili. Questa è la realtà vera, ove l’amore vive reciproco, sanificante, indisturbato.
Quando poi son partito avrei voluto abbracciare e baciare tutti, uno ad uno. Ma lo faccio ora: grazie a voi!
Le dinamiche dell’Amore. Mi rendo conto che è molto, molto più il ricevuto di quel poco, eventuale, donato.
Era lì tra noi il cuore del mondo,
perché lì era la croce del mondo,
perché lì era l'amore del mondo.
E mi risuona dentro, impellente, prepotente, e viene da lontano: “Chi saprà mai ridire le infinite bellezze e novità, gli orizzonti sterminati che contempla un’anima abbandonata all’avventura divina della divina volontà?”
(da una foto mia, agosto 2009)
domenica 3 febbraio 2013
La piccola e quotidiana compressa
È il secondo anno consecutivo che accade. Un programma che salta di nuovo. Una cosa che si può realizzare solo in pochi giorni dell’anno, e poi bisogna aspettare quello dopo.
Andare in montagna a camminare con le ciaspole ai piedi, di notte, sulla neve. Con la luna piena, ovvero: illuminati a giorno. Esperienza da fare, nella vita! E quest’anno proprio ci tenevo ad andare, dopo aver ben valutato i pro e i contro.
Poi è accaduto invece che son stato male, il giorno precedente ho dormito quasi ventiquattrore di fila, con febbre alta e forti coliche.
Sono decenni, che vivo così. Con l’incognita assoluta dei miei giorni futuri. Non so se e quando riaccadrà, anche se oramai ho individuato una quasi periodicità. Tempo perso, giornate intere che volano via tra sonno e coliche appunto, programmi che saltano, la vita si blocca. Tutto si ferma, e tutto si ripete. Anche uno starnuto può essere un supplizio. Ci convivo, mi ci sono abituato, anche se ogni volta ci sarebbe da piangere e urlare.
Dopo aver provato di tutto e udito diagnosi di vario genere - fino allo sfottìo di qualche medico che risolve con “psicosomatico” sottintendendo “matto” - tre anni fa si era finalmente individuata la causa, una rara forma di febbre ereditaria.
E quindi la cura, la sola cura che pare esistere, una compressina da prendere tutti i giorni per tutta la vita. Molto molto meglio: ricadute una, due volte l’anno, ma in forme molto leggere. Una specie di paradiso dimenticato!
Poi dai controlli periodici emerge che questa medicina sta creando danni gravi. È tossica, si sapeva. Ma non a questo livello. E quindi che fare?
Vivere meglio, ma sicuramente meno? Oppure vivere un po’ di più, magari, ma con questi intercalare continui ed estenuanti? Tutto sospeso al momento, da capire e decidere.
Debbo dire che questo star male mi ha forgiato, in qualche modo, anche se è sempre un’esperienza dolorosissima. Mi rendo conto che posso capire il dolore altrui, condividendolo in me profondamente, inevitabilmente. Quando ti senti morto, e lo sei davvero in questi momenti, tocchi davvero il fondo del pozzo. Quante volte ho chiesto: perché? Perché proprio a me? Che poi son le domande eterne dell’uomo davanti al dolore, me le son ritrovate precise anche con la separazione.
Tempo fa parlando con giovani amici, angustiati al pensiero della fine, dissi che io son morto tante volte... Ma non ho potuto spiegare, forse non era nemmeno il caso. Loro l’hanno presa come una delle mie boutade. Ma è invece realtà, dolorosa e vera. Ogni volta è morire.
Ma poi ogni volta un ritorno alla vita gioioso, una quasi resurrezione del corpo. La vita comincia, ricomincia ogni volta che riesci a stare eretto, che senti la muscolatura tornata normale, puoi dilatare i polmoni e respirare profondo.
Ogni volta è un’alba nuova del mondo. E Dio è.
(foto mia, Umbria 2009)
Andare in montagna a camminare con le ciaspole ai piedi, di notte, sulla neve. Con la luna piena, ovvero: illuminati a giorno. Esperienza da fare, nella vita! E quest’anno proprio ci tenevo ad andare, dopo aver ben valutato i pro e i contro.
Poi è accaduto invece che son stato male, il giorno precedente ho dormito quasi ventiquattrore di fila, con febbre alta e forti coliche.
Sono decenni, che vivo così. Con l’incognita assoluta dei miei giorni futuri. Non so se e quando riaccadrà, anche se oramai ho individuato una quasi periodicità. Tempo perso, giornate intere che volano via tra sonno e coliche appunto, programmi che saltano, la vita si blocca. Tutto si ferma, e tutto si ripete. Anche uno starnuto può essere un supplizio. Ci convivo, mi ci sono abituato, anche se ogni volta ci sarebbe da piangere e urlare.
Dopo aver provato di tutto e udito diagnosi di vario genere - fino allo sfottìo di qualche medico che risolve con “psicosomatico” sottintendendo “matto” - tre anni fa si era finalmente individuata la causa, una rara forma di febbre ereditaria.
E quindi la cura, la sola cura che pare esistere, una compressina da prendere tutti i giorni per tutta la vita. Molto molto meglio: ricadute una, due volte l’anno, ma in forme molto leggere. Una specie di paradiso dimenticato!
Poi dai controlli periodici emerge che questa medicina sta creando danni gravi. È tossica, si sapeva. Ma non a questo livello. E quindi che fare?
Vivere meglio, ma sicuramente meno? Oppure vivere un po’ di più, magari, ma con questi intercalare continui ed estenuanti? Tutto sospeso al momento, da capire e decidere.
Debbo dire che questo star male mi ha forgiato, in qualche modo, anche se è sempre un’esperienza dolorosissima. Mi rendo conto che posso capire il dolore altrui, condividendolo in me profondamente, inevitabilmente. Quando ti senti morto, e lo sei davvero in questi momenti, tocchi davvero il fondo del pozzo. Quante volte ho chiesto: perché? Perché proprio a me? Che poi son le domande eterne dell’uomo davanti al dolore, me le son ritrovate precise anche con la separazione.
Tempo fa parlando con giovani amici, angustiati al pensiero della fine, dissi che io son morto tante volte... Ma non ho potuto spiegare, forse non era nemmeno il caso. Loro l’hanno presa come una delle mie boutade. Ma è invece realtà, dolorosa e vera. Ogni volta è morire.
Ma poi ogni volta un ritorno alla vita gioioso, una quasi resurrezione del corpo. La vita comincia, ricomincia ogni volta che riesci a stare eretto, che senti la muscolatura tornata normale, puoi dilatare i polmoni e respirare profondo.
Ogni volta è un’alba nuova del mondo. E Dio è.
(foto mia, Umbria 2009)
sabato 26 gennaio 2013
La pericoresi
Negli anni passati mi son trovato nella necessità di aggiornarmi.
Tanto ero stato altrove, e tante cose erano accadute: un’ansia di conoscenza arretrata e prorompente. Anzi, era quasi il bisogno d’acqua alla fine del deserto, quando arso finalmente arrivi a capire di averne bisogno.
I canali di approvvigionamento sono stati tanti, dai libri che avevo sino al web, cercando per ogni dove ad ogni spunto, da una scoperta inseguendone un’altra.
Mi son trovato in casa alcuni volumi della rivista bimestrale Nuova Umanità, edita da Città Nuova e forse nota solo agli addetti ai lavori: chissà da dove provenivano, e come. Articoli a volte difficili per me che non sono uno studioso. Eppure ho trovato in questi volumi un pozzo di scienza e conoscenza a tutti i livelli, proprio quello che andavo cercando. Per rendere l'idea, un numero del 1999 aveva articoli per me davvero coinvolgenti (consentitemi questa digressione pubblicitaria!) come: “La famiglia è il futuro”, “La cultura del dare”, “Il dolore, un grido verso l’oltre”, “Che cos’è il pensare? Una riflessione alla luce di Gesù Abbandonato”. Insomma un nuovo mondo da scoprire e godere nel cuore, da divorare e assimilare nel vivere.
Mi son messo alla ricerca dei numeri vecchi, tanta era la sete, in un’impresa nient’affatto facile. Dopo una richiesta di prestito andato a male, mi son detto che dovevo insistere senza demoralizzarmi, e ho scritto ad alcuni amici che pensavo potessero darmi qualche dritta. Da Roma il mio amico grande Andrea mi ha prontamente scritto che aveva più di un decennio di queste riviste che non sapeva più ove tenere… e che stavano inscatolate pronte per me!
Incredibile! mi son commosso. A volte, forse sempre, bisogna andare oltre, tentare l’impossibile.
Ora è tutto qui, nella mia piccola biblioteca. Credo che stiano fruttando, anche in me che non sono certo né filosofo né teologo, ma semplicemente un assetato di Verità.
Di recente ho letto “Verso una psicologia in dialogo”, del 2000. Trascrivo alcune righe in cui l’autore cita un libro del teologo Hemmerle.
“Sulle orme del Vangelo di Giovanni, Klaus Hemmerle approfondisce il significato di reciprocità, cogliendo alcuni aspetti della vita Trinitaria che possono tradursi in rapporti interumani. La reciprocità è, innanzitutto, <inabitazione reciproca> e pericoresi è l’espressione classica con la quale la teologia denomina questo reciproco essere l’uno nell’altro. <”Pericoresi” – spiega Hemmerle – è originariamente il nome di una danza: uno danza intorno all’altro, l’altro danza intorno a lui, e così tutto fluisce in maniera reciproca, l’uno dentro l’altro. E in realtà, è così che scorre la vita nella dinamica di quell’amore che Gesù ci insegna e ci dona: l’altro è l’asse della mia vita. Io sono l’asse della sua vita. Dio è l’asse della mia vita, io sono l’asse della sua vita. Tutto si svolge in questo gioco assiale del reciproco circondarsi>.
Io sono l'asse della vita di Dio! Troppo bello, come non condividervelo? L’autore non pare dire proprio del rapporto coniugale, ma io inevitabilmente questo ci leggo. Certo, in una separazione parlare di “pericoresi” pare follia, evidente che manca la reciprocità.
Ma io mi sento appieno dentro il "gioco assiale del reciproco circondarsi", pur in questa situazione.
E non oso pensare alla bellezza, alla pienezza, alla tenerezza, all'armonia della pericoresi in un rapporto di coppia assolutamente e felicemente corrisposto...
(foto mia, Spagna 2007)
Tanto ero stato altrove, e tante cose erano accadute: un’ansia di conoscenza arretrata e prorompente. Anzi, era quasi il bisogno d’acqua alla fine del deserto, quando arso finalmente arrivi a capire di averne bisogno.
I canali di approvvigionamento sono stati tanti, dai libri che avevo sino al web, cercando per ogni dove ad ogni spunto, da una scoperta inseguendone un’altra.
Mi son trovato in casa alcuni volumi della rivista bimestrale Nuova Umanità, edita da Città Nuova e forse nota solo agli addetti ai lavori: chissà da dove provenivano, e come. Articoli a volte difficili per me che non sono uno studioso. Eppure ho trovato in questi volumi un pozzo di scienza e conoscenza a tutti i livelli, proprio quello che andavo cercando. Per rendere l'idea, un numero del 1999 aveva articoli per me davvero coinvolgenti (consentitemi questa digressione pubblicitaria!) come: “La famiglia è il futuro”, “La cultura del dare”, “Il dolore, un grido verso l’oltre”, “Che cos’è il pensare? Una riflessione alla luce di Gesù Abbandonato”. Insomma un nuovo mondo da scoprire e godere nel cuore, da divorare e assimilare nel vivere.
Mi son messo alla ricerca dei numeri vecchi, tanta era la sete, in un’impresa nient’affatto facile. Dopo una richiesta di prestito andato a male, mi son detto che dovevo insistere senza demoralizzarmi, e ho scritto ad alcuni amici che pensavo potessero darmi qualche dritta. Da Roma il mio amico grande Andrea mi ha prontamente scritto che aveva più di un decennio di queste riviste che non sapeva più ove tenere… e che stavano inscatolate pronte per me!
Incredibile! mi son commosso. A volte, forse sempre, bisogna andare oltre, tentare l’impossibile.
Ora è tutto qui, nella mia piccola biblioteca. Credo che stiano fruttando, anche in me che non sono certo né filosofo né teologo, ma semplicemente un assetato di Verità.
Di recente ho letto “Verso una psicologia in dialogo”, del 2000. Trascrivo alcune righe in cui l’autore cita un libro del teologo Hemmerle.
“Sulle orme del Vangelo di Giovanni, Klaus Hemmerle approfondisce il significato di reciprocità, cogliendo alcuni aspetti della vita Trinitaria che possono tradursi in rapporti interumani. La reciprocità è, innanzitutto, <inabitazione reciproca> e pericoresi è l’espressione classica con la quale la teologia denomina questo reciproco essere l’uno nell’altro. <”Pericoresi” – spiega Hemmerle – è originariamente il nome di una danza: uno danza intorno all’altro, l’altro danza intorno a lui, e così tutto fluisce in maniera reciproca, l’uno dentro l’altro. E in realtà, è così che scorre la vita nella dinamica di quell’amore che Gesù ci insegna e ci dona: l’altro è l’asse della mia vita. Io sono l’asse della sua vita. Dio è l’asse della mia vita, io sono l’asse della sua vita. Tutto si svolge in questo gioco assiale del reciproco circondarsi>.
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