venerdì 23 dicembre 2011

Il nome del dolore

È il quinto inverno, qui nel mio eremo.
È tornato il freddo, anche quest’anno. E devo prendere atto che il mio corpo non è entusiasta. Sarà la stanchezza, sarà che invecchio. Lo sto soffrendo più del passato.

Di recente, momenti difficili. Anche la solitudine fa la sua parte, la vita non è sempre uguale.
Una sera, in fila alla cassa del discount, accanto a me un uomo, uno qualsiasi. È stato un attimo, un lampo di luce. Mi sono sentito patetico, accanto a lui. Un uomo che veniva da lontano, un uomo che ho presunto avesse storie di dolore molto più grandi della mia. Un uomo che vedevo sereno, superiore, nella sua dignità piena. Forse erano solo i miei occhi. Ma è stato un rendermi conto della mia pochezza, del ridicolo del mio dolore. A volte mi lamento con Dio, mi appare impossibile vivere la mia storia. E buona parte dell’umanità vive in dolori ben più grandi dei miei.

Chi non ha famiglia, chi non ha lavoro, chi figli, chi affetti, chi salute, chi casa. Chi vive nelle guerre, chi nelle devastazioni. Chi nella miseria assoluta. Chi nella solitudine disperante.
E soprattutto, il dolore più grande: chi vive, sopravvive, senza Dio. E senza poter dare nome al dolore.
Io ho tante cose, seppur fortunatamente in misura ridotta (mi vergognerei, altrimenti). Vivo nell’emisfero nord del mondo, ho comunque un lavoro, una casa, un’automobile. Una famiglia bella, anche se forse non appare. La salute: ho tanti acciacchi, ma non va proprio male.

Un’amica, abbandonata dal marito, con figli minorenni. Venuta dall’est in Italia per dare un futuro ai figli. Una volta mi ha rimproverato, paragonando le nostre vite: la mia "agiatezza" e il suo pochissimo.
Un’altra amica, del sud del mondo, innamorata dell’Italia, mi pose un quesito irrisolvibile: “Perché sono nata in Brasile, e non qui in Italia, come voi?”

Un caro amico che vive una situazione familiare davvero difficile, col figlio che necessita attenzioni continue e pazienti, mi narra del suo dolore esausto, della sua fatica ormai senza speranza, e mi lascia muto.
Cosa dire?

Certo, pensavo, il mio dolore non è poco. La separazione, “questa” separazione, con la conseguente solitudine, è un dolore grande.
Ma poi mi pareva che non è nemmeno tanto, il mio dolore: tanti sulla terra ne hanno ben di più.
Ma allora il mio dolore com’è? Né poco, né tanto. Ma allora è giusto!?
Deve essere così: Dio sa e dosa, a ognuno il dolore “giusto”.

Ma come non chiedermi, allora, di quanti vivono situazioni terribili e nemmeno immaginabili: ma chi sono davanti a Dio, chi sono? Ma che forza hanno? Questa domanda spaventa.

Sempre più spesso mi accade di empatizzare, in maniera atipica forse, con persone che incontro, mi chiedo che dolore avranno, cosa le erode dentro. Qualcuno persino mi rimprovera che cerco sempre di andare oltre, di capire cause e problemi. Ma davvero credo che si debba sempre mettersi nei panni altrui, usare la sola misericordia come esclusivo metodo di analisi. Per comprendere, non necessariamente per giustificare.

E questa pratica, continua, oltre te e la tua umanità, ti porta poi a penetrare, a dare un nome al dolore, al dolore di ognuno sulla terra.
Se sai cosa è il grido del Golgota, e ci sei passato dentro, puoi capire: il nome del dolore universale è quello, sempre, da millenni.
Partecipi al dolore e collabori alla redenzione, per quanto puoi.

E tutto cambia dimensione, e tutto si spiega, e nasce e rinasce la luce che illumina qualunque oscurità.

Mi rendo conto che sono partito ragionando di dolore, son giunto alla rinascita perpetua. Ma questo è: legati intimamente e misteriosamente.
Ed ecco che già, di nuovo, arriva Natale: la nascita!

Voglio augurare a voi tutti un Natale vero, di rinascita perpetua, appunto.
Anche condividendo questo racconto ( --> Christmas) che nasce da una mia esperienza reale vissuta a Roma, nei pressi della stazione Tiburtina, alla vigilia del Natale 1997, praticamente un anno dopo la partenza di mia madre.
Rileggendolo oggi mi accorgo che, oltre le forme forse acerbe, ci si può leggere molto di me allora e dedurne un pò come vivevo dentro. Una esperienza romanzata, col solo epilogo di fantasia.
(Una versione ridotta ne è stata pubblicata su Città Nuova 24 del 2003.)

(foto mia, Roma, anni '70)

lunedì 5 dicembre 2011

E la tua sposa?

Mi è stato chiesto perché uso sempre il termine “sposa”, e mai altri. Infatti non è casuale…

Dal diario di bordo del mio “pellegrinaggio” a Santiago de Compostela, pag. 37.

. . . . . . .
3 aprile 2007,
da Palas de Rei a Melide.

Praticamente sono l’ultimo a partire. Per un fraintendimento, con Brigitte non ci ritroviamo... io credevo fosse partita, invece era al bar che mi aspettava!
Freddo polare: ghiaccio tutto intorno. Altra giornata da solo, e sono molto malridotto fisicamente. Arrivo al rifugio di Melide che è presto, ma non ce la faccio a proseguire come programmato. Sistemo alla meglio e poi vado in cerca di un bancomat, barcollante.
Mi sento chiamare da dentro la Pulperia Ezechiele. Sono Joke e Leen! Mi siedo con loro e mangio pulpo gallego (polipo cucinato alla maniera della Galizia) in questo locale che è un mito nella zona. Sono tavolate come nelle nostre osterie, a mangiare ci sono persone distinte e popolani. Due spagnoli che avranno la mia età fanno i galanti con le due giovani fiamminghe. Poi spiegherò loro la teoria, appena elaborata, del “latin dreamer”, che ha soppiantato il “latin lover”. Grandi risate!

Incontriamo poi Brigitte che prosegue, si fermerà più avanti. Anche Joke e Leen proseguono, io devo fermarmi, non ce la faccio. Ci salutiamo sulla piazza. Io sono in lacrime. Mi sento solo!
Che scemo… alle 15,42 sono sulla piazza di Melide a piangere come bambino! Ma son contento. Una bella ragazza spagnola mi sorride: è anche lei nel Cammino e forse comprende quanto provo.
Il mio cuore è inanellato di dolori. Grandi, piccoli... nulla manca. Son qui, in terra straniera, solo, in attesa del domani, sto male fisicamente, mi sento la febbre.

Leen a pranzo mi ha chiesto, candida, in italiano: “E la tua sposa?” e io “I don’t know… i am here for her!”

Ho sprazzi di grande luce, camminando. Capisco che devo crescere nella misericordia. Per anni sono stato un giustiziere. Ma Dio, il Dio del Nuovo Testamento è venuto a morire. Poteva farne a meno. E soprattutto, è morto ingiustamente.
Vedere coppie… di ogni età mi porta a pensare alla bellezza della vita in due. Da quanti anni sono solo?

In questo autunno della vita: che possiamo testimoniare che Tu sei Amore, e solo Tu puoi fare di due un corpo e un’anima sola!
Torno a dormire. Mi sento la febbre. Mi alzo in tempo per andare a messa. Il mio corpo è disfatto, il mio cuore esulta!
Cantava De Andrè: “Dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior!”

Son qui ad offrire il mio cammino, il mio dolore stasera moltiplicato.
Tu hai un progetto, Signore: che si realizzi. Son solo come sempre, ma ancor più stasera.
E Tu solamente sei... Io vengo a Santiago da Te, questo è un pellegrinaggio vero.
Sono in una quasi apoteosi del dolore: solo, col corpo in disfacimento, addome dolorante, influenza, tendiniti varie, talloni e piedi doloranti, ernia inguinale pure… cammino gobbo, barcollo. Prende a piovere. Sono commosso, Signore Dio!

Stasera mi sento proprio nulla, e Ti sento profondamente vero: che questo nulla sia per la Redenzione!

. . . . . . .
Per la cronaca: dopo una notte molto agitata, e attorno tutti nella camerata russavano, il mattino dopo mi son svegliato che stavo meglio. Dovevo raggiungere la mia “famiglia temporanea”... ed ho percorso 33 km, piccolo record personale!

Per chi volesse saperne di più, ho già scritto del mio pellegrinaggio qui.

(foto mia - sulla via di Santiago - aprile 2007)