giovedì 19 novembre 2015

Fallimento?


Provo a rispondere a questa domanda rivoltami da unknown qui sul blog, il 23 ottobre. Ho iniziato subito a rispondere ma poi sono stato preso da altro scrivere che, purtroppo, urgeva di più. Chiedo scusa del ritardo.
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"di certo in questo film in cui vivo sono stato posto dalle scelte della mia sposa, che ben altro io avrei desiderato nella mia vita"
La responsabilità del fallimento del matrimonio può essere di uno solo degli sposi?
Non credo e sono sposata da 37 anni.
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Carissima unknown, bella la questione, molto intrigante per me risponderti.
Naturalmente dirò il mio punto di vista, che nasce dalla mia vita. Però è quanto chiedi, a me proprio. Ho con fatica imparato a non assolutizzare. Non esiste ricetta valida per tutti e comunque. Guai a entrare nella coppia e pontificare. Son sempre migliaia le sfumature che distinguono una storia da un’altra.
Parto dall’esperienza di credente, ma presumo si possa ben estendere: dipende solo da chi sei, dentro. A prescindere dal tuo rapporto con l’Eterno.

In genere gli esperti dicono che la responsabilità dei problemi all’interno della coppia è da dividersi sempre, o quasi sempre, fifty/fifty, con le dovute possibili varianti. E questo penso di poterlo condividere ampiamente, e io mai parlo di colpe ma, come te, di responsabilità: la colpa è figlia della malafede, la responsabilità può dipendere da tanti altri fattori. Proviamo a vedere positivo, sempre e comunque.
Poi ad un certo punto della vita magari accade che uno dei due decida di chiudere il matrimonio, voltare pagina (e per lo più nasce da distrazioni altrove, come tutti - quasi tutti - ben sappiamo).

E qui la responsabilità per la maggior parte se la deve addossare chi decide la chiusura, specie se l’altro è disponibile a ricominciare. Perché ricominciare, cambiare, crescere, in genere potrebbe, dovrebbe essere possibile. Anche se mi pare ci siano tante eccezioni, situazioni molto gravi. Ad esempio, la Chiesa ritiene che in contesti particolari il separarsi sia il male minore, quindi pure consigliato.

Citi le mie parole. Penso sia chiaro che sto vivendo di rimessa, ovvero in base alle scelte della mia sposa. Non pensavo proprio di giungere a tanto, specie col mio carattere. Pensavo che l’amore fosse l’azione, l’accudire, il fare, lo stare vicino. Credo di aver pure soffocato, per quanto in buonafede. Perché lo “amare il prossimo come sé stesso” come principio è naturalmente eccellente, ma poi sarebbe da aggiungere, specie nel rapporto di coppia: “nel modo in cui il prossimo desidera”. Perché qui sono possibili enormi svarioni, se non ci si mette nei panni del coniuge: essere l’altro, un po’ come accade dentro la Trinità, direi.
Il “come”: termine di paragone, e quindi modo di amare, deve essere l’altro: come il coniuge si amerebbe. E quindi io divenire l’altro che si ama come desidera…

Col tempo, la distanza, il sangue, ho compreso che questo qui è l’amore ancora più grande. Questo è “l’amore di Dio”, l’amore che si sta chiedendo a me e a tanti, per lo più invisibili. Arrivare sino in fondo, tutto accogliere, tutto tollerare, tutto amare.
E quindi Maria sul Golgota: chi più separata di lei dall’amato?

Tu ti dichiari non credente. Ma se non credi, e stai sotto la croce comunque… mi sa che è ancora più grande l’amore! E questo solo conta, no?

Poi avrai letto che il termine “fallimento” non mi piace proprio.
Qualche anno fa venni invitato ad una tavola rotonda dinanzi a centinaia di fidanzati. C’era con me l’avvocato esperto in cause di nullità, c’era la psicologa esperta di relazioni di coppia... e io? Lì mi resi conto che ero esperto in fallimenti: e così mi presentai. Un po’ di sconcerto, e pure risate, perché nessuno poteva immaginare questa presentazione. Ma era ed è vero: fallimento del mio amare, fallimento dei miei sogni, fallimento dei tanti bei progetti. E quindi esperto reale della vita di coppia: in negativo, ma sai tutto alfine, e puoi pure passare il tuo know-how… al positivo!

Fallimenti tanti, ma non del matrimonio, no. Tanto è vero che ci sto dentro, seppur senza reciprocità. Perché ci credo, perché lo voglio. Perché ho un’immagine alta della mia sposa, perché so chi ho sposato.
E alla fine quel che conta è come Dio vede l’uomo, come vede la donna. Il suo progetto “soprannaturale”. E quindi arrivare, se possibile, ad inquadrare le cose nell’ottica divina: Dio rimane fedele al suo disegno, al suo Amore. E in questa dinamica sempre, sempre ricominciare, imparando, se possibile, qualcosa dagli sbagli.
Mai è troppo tardi per l’amore.

(foto mia, Barcelona 2014)

lunedì 26 ottobre 2015

Le noci

Quando stavo per acquistare questa casa, le tante perplessità vennero alfine risolte dalla presenza di due alberi di noce. Belli, imponenti, ombrosi. Proprio a ridosso della casa. E così son divenuto un micro-coltivatore di noci. Quando va molto male, come lo scorso anno, quando meglio come quest’anno.
E questo raccogliere noci, oramai da qualche settimana - dato che vengono giù quando si ritengono mature, ciascuna coi suoi tempi – proprio di recente mi ha indotto una riflessione, seppur davvero banale: accade che passo a vedere sul terreno, raccolgo quel che trovo, torno poi indietro e vedo altre noci che già prima evidentemente stavano lì. Poi ripasso, e ne trovo altre ancora.
Buffo assai, ma spiega bene la vita: a volte è solo questione di punti di vista, di momenti, e pure di luce: basta spostarsi, muoversi, e si vedono cose che ti stavano comunque sotto il naso.

Di recente c’è stato l’anniversario dei dieci anni: dieci anni dalla svolta epocale del mio esistere. E nulla allora avrei scommesso sulla mia sopravvivenza. Perché accadono cose che nella vita non dovrebbero accadere: non le immagini proprio, non le metti in conto. Forse nemmeno sono giuste. E certo sai di essere inadeguato, proprio non capace.
Se guardo la mia vita passata devo per forza constatare che son cresciuto più in questi dieci anni drammatici e soli che nei cinquanta precedenti. Ho dovuto smuovermi, risolvermi dentro, aggiornarmi di continuo, adeguarmi a quanto la storia - ovvero le scelte della mia sposa - prepotentemente mi offriva come chance.
Mica facile, eh! Però come non vedere che molto spesso interviene “altro” da te, situazioni, cose ben lontane che però aiutano e risolvono? Perché vivere soli, specie quando non ci sei proprio portato, e col dolore dell’abbandono, non è come passeggiare in un parco in fiore, in una dolce mattinata primaverile.
Ad un certo punto mi son accorto che facevo “di ogni ostacolo una pedana di lancio”. Meccanismo che ben conoscevo da tempo immemore. Ma che ho dovuto perdere per poi ritrovare moltiplicato. 

Debbo confessare che trovo irritante leggere qui e là: “matrimonio fallito”. Qualcuno ha provato a dirlo del mio, ed ho dovuto farmi sentire. Fallito? Questo è matrimonio pieno. Forse un poco “diverso”. In questo sì, che i tempi son cambiati. Nel pensare al matrimonio come ai tempi prima del ’68: che rimane in piedi comunque, ed alternative non ve ne sono. Oggi pare tutto il contrario, ma il matrimonio cristiano non termina, e non è fallito, mai.
Cambia forma, è liquido. Ma vivente, si adatta, si conforma. Così vivo io, così viviamo in tanti, anche se i media ci ignorano. Ma non servono riflettori puntati: non si vive così per gli uomini o per la ribalta.
Sono comunque storie di dolore (e chi vuol sentirne?) pure se - parzialmente - risolto.
La scissione persiste, ché se è vero che i coniugi cristiani divengono un sol corpo, come altrimenti vivere la spaccatura del corpo coniugale, quasi direi come il Sabato santo di Maria nell’attesa della Resurrezione del Figlio?
Il separato: lui risorto "già, ma non ancora" insieme, nella “sola carne” ricomposta…

Un tempo si diceva per sempre, e in qualche modo doveva esserlo.
Un tempo si prometteva l’amore, e in qualche modo ci si costringeva a viverlo (ah… e chi parla più di sacrificio?).
Un tempo ci si impegnava per sempre, oggi è finché non ti distrai.
Un tempo l’abbandono del tetto coniugale era reato, oggi è acqua fresca.
Un tempo si diceva adulterio ed oggi “rifatti una vita”.
Un tempo l’adulterio era punito, oggi viene incoraggiato.
Un tempo il rapporto uomo - donna era uno scrigno chiuso, geloso di sé, oggi aperto ai venti di ogni dove.

Si chatta, si whatsappa, si facebookka, e tutto porta sempre più lontani dalla propria vita. Ho visto cose che sarebbero ridicole (da ridere) se non fossero drammatiche. Ma tutto funziona, purché porti lontani dal proprio reale, dal presente in cui si sta male.
Invece di ricostruire la propria storia ogni momento, ricominciare daccapo che è il solo modo di vivere sano, cristiano e non, si azzera tutto in vista di nuova felicità.
Che poi magari, passata la fase iniziale, riporta nella tristezza e fa ricominciare daccapo.
Come il vento del deserto che muta continuamente l’orizzonte, la vista, il presente. Nulla dura più.
E noi invece qui, sparuta, isolata, sbeffeggiata schiera: a dire che l’amore (l’Amore) per quanto liquido, è possibile, più che mai.
Ah, dimenticavo, pure gli umani son come le noci: ciascuno ha i suoi tempi di maturazione.

(foto mia, Finisterre, Spagna 2007)

sabato 17 ottobre 2015

Una corrispondenza attuale che viene da lontano...

Correva l’A.D. 2009: perciò solo sei anni or sono, anche se mi pare un secolo. Avevo casa sottosopra, si stava rifacendo il tetto, quindi era tutto concentrato al primo piano, in un caos notevole.
Una sera lessi sul sito del Corriere della Sera questo articolo di Isabella Bossi Fedrigotti > (click qui x vedere articolo)
Beh, dal mio eremo scombussolato nonché osservatorio particolare sulla questione, ci stava di che intervenire. Cominciai a scrivere, limare, ritoccare. Poi andai a dormire, era tardi. Al mattino molto presto chiamai un amico giornalista, mi serviva un parere. Lo svegliai, e gli lessi quanto avevo scritto. Lui rise e mi disse: “manda, manda!” Ritoccai ancora alcune parti, e inviai alla giornalista.
Questo il testo della mia email (21 maggio 2009):

Gentile Signora Isabella,
leggo il suo generoso intervento sul Corriere, e mi permetto di intervenire, sentendomi chiamato in causa: perché sono uno dei, presumo pochi, folli sulla terra che, essendo stato abbandonato dalla propria sposa, vive una situazione di matrimonio bianco.
Sono semplicemente un uomo che cerca di vivere il Vangelo, soffrendo nella propria carne altrui scelte, ma era già tutto compreso nel pacchetto matrimonio: nella buona e nella cattiva sorte, rimango a te fedele… e purtroppo la cattiva sorte si presume sempre tocchi ad altri.
Lei auspica che la religione sia per l'uomo, finalmente, e non l'uomo per la religione.
È senz’altro da condividere, al primo impatto… ma ho l'impressione che sia posto male il quesito.
Non credo che la religione sia per l'uomo e manco che l'uomo sia per la religione.
Da uomo della strada penso che la religione sia incontrare il Dio vivente, e vivere in Lui. Per cui: molto più che per l’uomo!
Forse da tante parti è vero che si condanna per un divorzio, persino subìto.
Questa non è certo la Chiesa, ma solo esacerbazioni di uomini di Chiesa. Che magari necessiterebbero di adeguata formazione sulla realtà della famiglia, e del suo ambito.
Nel matrimonio guai a parlare di condanne, di giudizi. Nessuno può sapere, né giudicare. Manco Dio condanna, e chi si permette tanto? Ma questa gente ha mai sentito dire della Samaritana? E del Figliol prodigo?
Però è vero che si fanno delle scelte, e di queste poi si vivono le conseguenze.
Le dico serenamente che se un giorno dovesse cambiare qualcosa nella mia vita, ovvero abbandonare nel mio cuore la mia sposa, sostituendola con altra, non starei certo a chiedere alla Chiesa di giustificarmi o accogliermi. Avendo ben chiaro che la mia scelta mi pone automaticamente in altra realtà. Ma come potrei poi avercela con la Chiesa, che non mi consente l’Eucarestia, unico sacramento da cui sarei escluso? Al limite potrei solo avercela con me stesso.
E guardi che vivere soli non è facile, lo dico con cognizione di causa, dato che dormo solo oramai da oltre duemila notti.
Ho quindi scelto di vivere nel mio matrimonio, ora più che mai. Ma vale la pena questo sacrificio? La risposta è una sola: se Dio esiste, sì, se invece non esiste è pura idiozia, sto sprecando la mia esistenza. Ma se Dio non esiste allora non serve nemmeno ragionarci sopra, non parliamo manco di Chiesa.
D'altronde il creare nuove relazioni, seppur conseguenza e non scelta, avendo la sola propria coscienza come termine di paragone, magari in perfetta buona fede, non può indurre la Chiesa a fare da notaio di un mondo che è cambiato.
Specie oggi, in cui tutto pare soggettivo, meno male che sopravvive qualcuno che si ostina ad affermare che la Verità esiste. E la Chiesa è ben altro che una congrega di pie persone, come vorrebbe far intendere qualche buon anziano sacerdote.
Per fare un esempio, esagerato ma chiarificante: ipotizziamo che un giorno buona parte della società viva di schiavismo, di razzismo, o altro che noi oggi tutti condanniamo: cosa dovrebbe fare la Chiesa: allinearsi e benedire, dato che è cambiato il comune “sentire”?
Il Male esiste, lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, basta scorrere le notizie.
Ma se esiste il Male, esiste dunque pure il Bene…
In questi tempi mi sono posto anche domande più grandi di me, come quelle dei bambini, a cui rispondeva il catechismo di una volta in maniera molto nitida: a cosa serve la vita, chi è Dio, perché si nasce, perché esiste il dolore, cosa è amore.
E le assicuro che le risposte in questo oceano di dolorosa silente solitudine non sono state facili, eppure non mi lasciano dubbio alcuno.
Questo vivere non è forse seducente, ma è quanto ha deciso la mia sposa per la nostra famiglia.
Paolo Ricci (di certo: non un “fedele tradizionalista”)
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Naturalmente la mia voce dissonante (voce che grida “dal” deserto?) non ebbe diritto di pubblicazione. Anzi, a pressare ulteriormente, venne pubblicato un articolo in cui Gerry Scotti narrava le sue vicende che a me parvero non entrarci affatto.

La signora Isabella mi inviò comunque una cortese mail di risposta:
Bella la sua lettera, però il mio discorso non era per i santi uomini, bensì per tutti gli altri poveracci che soli, invece, non ce la fanno a stare. 
Un cordiale saluto, Isabella Bossi Fedrigotti 

Iniziai a scrivere una seconda lettera. Mi dava fastidio quel “santi uomini” che non mi riguarda. Io sto dall’altra parte, sono uno dei poveracci. E io ce la faccio a stare solo? Se qualcosa mi riesce non dipende da me, assolutamente. Io sono capace solo di danni, oramai lo so bene.
Ero un pezzo avanti con la seconda lettera, ma lasciai correre. Rischiavo di entrare in un vortice di polemica che comunque non avrebbe prodotto nulla di positivo.

Sto risistemando la mia posta degli anni passati - sono migliaia di mail, e ci vuole tempo.
E proprio ieri, casualmente, mi è finita sotto gli occhi questa corrispondenza. Sono andato a rileggere e quel “casualmente” mi si è illuminato, spiegato. Toh, la questione è apertissima, è l’argomento del giorno!
Stavo in anticipo sui tempi? Non so, di certo in questo film in cui vivo sono stato posto dalle scelte della mia sposa, che ben altro io avrei desiderato nella mia vita. Ed ho capito che devo vivere questa separazione come Amore di Dio, che solo questo è. E quindi fare la mia parte, che in questo contesto significa: dire quello che vivo e come vedo queste realtà. Per cui alla fine ecco questo blog, e questo mio interventismo che mai pare calare di tono.
Ma altro non posso. E non l’ho scelto io. Io solo cerco di essere coerente con la mia scelta di Dio, che è la cosa che più conta della mia esistenza.

(foto mia, monte Subasio 2008)

martedì 6 ottobre 2015

Coloro che arrivano all'abisso


Siamo all'autunno, l’estate è ancora una volta svanita. Chi ha riposato, chi no. Chi ha fatto ferie, chi ha strabordato, chi non aveva nemmeno i soldi per mangiare. Le giornate son già molto ridotte, la vita corre via, fugace. A brevissimo arriverà Natale, e poi comunque terminerà pure quest'altro inverno. E sempre più, la sensazione mia profonda è che solo in funzione dell’Eterno ha senso questo vivere.

A metà agosto, seppur in extremis, son riuscito a partecipare ad un convegno, qui in Umbria, della Fraternità Sposi per sempre: un bel gruppo di “svitati” che, come me e in virtù del sacramento in cui credono, vivono nel loro matrimonio pur senza la prevista reciprocità. Tutto nato dall’iniziativa di don Renzo Bonetti, che qui ringrazio pubblicamente per il suo forte credere nel sacramento del matrimonio.
Debbo dire che ho respirato un’aria molto sana, di cui avevo necessità in questo momento in cui parrebbe che grandi sconvolgimenti stiano per abbattersi su quanto ci era stato insegnato, e quindi credevamo, intorno al nostro matrimonio di credenti nel Vangelo.
Grazie a don Renzo, ma grazie anche a tutti i presenti: il clima generale è dipeso da ciascuno.

In questi giorni ho molti contatti con un amico che sta vivendo una fase drammatica della vita. Dopo la subìta separazione e la solitudine in una casa nuova e senza più prole vicina, sta rendendosi conto che la moglie fa tante cose. Ed il dolore bussa molto forte: inevitabile.
E allora?
In genere la separazione è voluta da uno dei due, parte attiva, che la impone alla parte inevitabilmente passiva, se non contraria. E non è indolore per nessuno, anche se chi lascia per lo più ha già pronto l’anestetico, anzi la “felicità”, che lo attende.
Ma chi è abbandonato certo si ritrova in mezzo ad una strada. E la soluzione, diffusa, semplicistica, fuorviante è sempre quella: rifatti una vita!
Ma se il coniuge ha una malattia grave, come potrebbe essere un "tumore dell’anima", cosa fai? Lo abbandoni? Contraccambi? Ti rifai una vita?

Ma qui si imposta male il problema, e la soluzione prospettata è tutto meno che soluzione.
Se credi, e non c'è obbligo, il tuo sì al coniuge è un sì all'Amore divino, è donare la tua esistenza a Dio nelle mani concrete di chi sposi, per sempre e comunque.
Se segui invece l’andazzo generale ti rifai una vita, magari ti accontenti di altro e può andare pure bene, ovvio. Ma a volte è un chiodo scaccia chiodo. Il taglio rimane, la ferita, il crack del disegno originario soprannaturale stanno lì, nulla cambia.
Certo, occorre proprio essere credenti, ma tanto, e disposti a rischiare la follia e pure lo scherno, per continuare a stare nel matrimonio.

Qualche tempo fa ho scoperto Martin Heidegger, filosofo contemporaneo. Ho studi tecnici e la filosofia mi è ostica. Però qualcosa capisco dal vivere, oramai.
Trovo drammaticamente attuale e vero:
“La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l'epoca è caratterizzata dall'assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio". (...) Si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza. (...) L'epoca a cui manca il fondamento pende nell'abisso. Posto che, in genere, a questa epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge il partire dall’abisso. Nell'epoca della notte del mondo l’abisso deve esser riconosciuto e subìto fino in fondo. 
Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso.” 
(Sentieri interrotti, ed. it., Firenze 1982, pp. 247-248)

La mia amica Alberta di recente mi ha condiviso un’affermazione di Cesare Pavese: “Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”. Preciso, grazie!

Condivido in pieno anche Heidegger. E' qui la soluzione, ne sono testimone di persona.
Il dolore va affrontato, attraversato: si deve giungere sino in fondo, oltre le consuetudini, oltre la giusta paura dell'ignoto e del buio.
Nella notte del mondo, arrivare all’abisso: coscienti, tenaci, a testa alta, magari nel sangue.
Ma con la certezza nel cuore di fare la cosa giusta, per quanto dolorosa, derisa, fuori moda, incompresa.

(foto mia, Verona, 2015)

domenica 30 agosto 2015

Resilienza

Mi son svegliato, poco fa, con una parola che mi sorgeva dalle notti, dimenticata: resilienza.
E... cosa significava? Cerco su web: “Capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi… In fisica e in ingegneria resilienza indica la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione.”
Chissà da dove mi nasce, stamani, stà parola. Ricordo di averla già usata, conosciuta. Ma ora mi sfuggono i particolari. Di questa come di tante altre cose…

Ieri sera è accaduto di nuovo, anche se in forma meno significativa, forse.
Una fase di buio assoluto, come un reset improvviso del sapere e del vivere proprio. Poi piano piano riprendere a riconnettere il quadro dell’esistenza, l’adesso e il chi e il come. Ma molto lentamente. 

Cena con figlie, genero e nipotini: tutto molto bene. Avevo preparato io la cena, loro tornavano dal mare ed io ho organizzato il mio catering solito, nei minimi particolari. Al termine riaccompagno la piccola a casa (“piccola” relativo, ovvio) e poi, forse appena salgo le scale di casa, ho questa sensazione di vuoto della mente. Tutto azzerato. Come un passaggio in un tritacarne.
Poco dopo, arrivo ad accendere il pc ma con scarsa convinzione della pw che avevo in mente. Tutto suonava anomalo, il tempo pareva immobile. Ovattato, la stasi assoluta.
Riesco a scrivere al gruppo The Ricci Family su whatsapp: a qualcuno devo comunicare.

Era già accaduto qualche mese fa, ma con un buco temporale forse maggiore. Al Pronto Soccorso e poi la visita specialistica: dissero di una cosa passeggera e senza rilievo.

Dimenticare, azzerare tutto, ricominciare da capo. Un buco di pochi attimi che fa blackout del passato, come un distacco di alimentazione al pc che cancella il lavoro in corso. Quanto basta per azzerare informazioni e dati e dolori. Ti trovi in altra dinamica, relativizzi tutto. Sei te e te, ora e solo ora. Altro non esiste. Sensazione come di asfissia della mente. L’uomo è quello che sa, e se azzeri… nemmeno più le chiavi di casa trovi.

Se ce la fai, metti nelle mani di Dio. E già ci stai, comunque. Ma importante è averne la cognizione, no? Più che mai, sei uno zero assoluto che veleggia nello spazio infinito, nel cosmo, e non sa quale è la regola, la legge che lo porterà… ma dove? Però si affida, in una sensazione di impotenza terribile. Perdere il controllo della mente, dei ricordi, del corpo. La mente che non ricorda chi sei. Sei tutto quello che sai, e sai chi sei stato, la tua storia, il tuo vissuto. Sai chi sei. Sei chi sai. E domani? Perché stai solo? Perché? Con l’amnesia dove vai, specie solo?

Credo che un reset globale a volte possa pure essere agognato, si cancellano soprattutto i dolori. Ma non mi piace.
Onestamente debbo dire che ci tengo molto al mio vissuto, nel bene e anche nel male.
Non posso nascere a questa età come da un parto.
Posso e devo nascere dalla vita vissuta, che vale molto più dell’azzeramento totale del passato. Sono il frutto del mio passato: ogni momento è stato, ed è, importante. Poi scelgo io come viverlo, specie il negativo, che poco comunque non è stato.

Penso alla lapidazione dell’adultera. Narrano i Vangeli (cito a memoria) che, tutti pronti a lanciare pietre, all’intervento di Gesù, presero a lasciare le pietre in terra a cominciare dai più vecchi, e se ne andarono.
Chi è senza peccato? Cominciano gli anziani a lasciare le pietre: loro hanno più peccato, più tempo per peccare e forse anche più consapevolezza.
Chissà, si può maturare davvero, con gli anni.

E questa è la “grande bellezza” di tale possibilità che direi unica nella storia: il positivo che nasce dal negativo, il bene che implode dal male. E forse addirittura direttamente proporzionale!
Mi piace pensare ad Agostino di Ippona, mi piace pensare a Paolo di Tarso.
E io sono Paolo, proprio questo qui, oggi, coi limiti certi e conclamati e con carattere e caratteristiche uniche e amate. Se non altri, amate da Dio sicuro.

(foto mia, Barcelona, estate 2014)

giovedì 30 luglio 2015

Che Dio t'aiuti!


Qualche tempo fa ho casualmente saputo di una anziana signora, mia vicina di casa dei tempi della “famiglia-sotto-lo-stesso-tetto”, che stava gravemente malata, tumore in fase terminale.
Sono andato a trovarla. Bella, serena. Mi ha riconosciuto, si è commossa. Mi ha mandato bacini con le mani.
Dopo pochi giorni è partita. Sono tornato per un saluto, ancora. Al funerale poi la chiesa era strapiena.

Avevo qualcosa di lei sul mio diario, il 30 agosto 2008: “Sono sotto la mia vecchia casa, quella che ho dovuto lasciare da un anno in quanto non più “mia”. Vado a salutare A. Mi chiede più volte come sto: non è formalità. Poi la fatidica domanda: “Ma non ti sei trovato una compagna?” “Perché? Io sono sposato, ho un impegno che mantengo, la famiglia prima di tutto. Forse sono matto…” Lei è sconcertata, ma contenta. Dice che nessuno fa questo, che bisogna ammirarmi per il coraggio. E poi: “Che Dio t’aiuti!” E ancora: “Magari le cose possono cambiare, col tempo… certo gli uomini non sono capaci ad arrangiarsi.”

Provo a scrivere di una cosa delicata che ho a cuore in questo periodo: la realtà economica dei separati, specie maschi, padri.
Vorrei dire del mio amico che ha finalmente cambiato la macchina di 25 anni di vita (gloriosa!) con una giovanissima di “appena” 10.
Vorrei dire del mio amico che a volte non mangia pur di non lasciare insoddisfatte le esigenze delle figlie.
E vorrei dire pure di me. Che ho comunque un lavoro, una casa, una automobile e che, in questi ultimi anni, ho vissuto una progressiva e spaventosa riduzione del potere d’acquisto dei pochi soldi che mi restano dopo il saldo dei debiti. Debiti che nascono tutti dal ricostruire una nuova esistenza altrove. Debiti figli della divisione, figli del Signore della divisione.
Terminerò di pagare il mutuo qualche anno dopo l’andata in pensione, forse, se ci riesco. Che non è detto (che ci sia la pensione).

Vorrei dire che siamo i nuovi poveri, lo dicono pure i giornalisti.
Ma poi penso alla mia amica col marito svanito e con due figli cui badare. Da due giorni ricoverata per febbri di natura da determinare.
Penso al mio amico che, senza più lavoro, e tanti ne ha fatti e ancora ne farebbe, è tornato a vivere dalla mamma, a mani vuote. E speriamo che la mamma duri.
Penso al mio amico che almeno ha la casa di proprietà, pur spesso non sapendo come pagare le bollette.
Penso ai poveri della terra, mi rendo conto che io, pur con le mie lamentele - assolutamente corrette - faccio comunque parte di quella esigua minoranza al mondo che sta bene, molto meglio della maggioranza. Mi dico che devo relativizzare. Posso farlo.
So che amo le ricchezze dei poveri, così come non amo le povertà dei ricchi.

Ho un amico, pure lui separato, pure lui abbandonato. Spesso ci sentiamo, mi racconta delle sue battaglie. Non tanto dei problemi con la moglie, anche, ma soprattutto dei bombardamenti continui che subisce da ogni genere di persone: trovati un’altra. Dimentica tua moglie.

Cosa dire? Certo, tanti lo diranno in buona fede, pensando alla sua “salute”, al suo “futuro”.
Mi torna in mente quanto disse l’anno scorso il cardinale Scola a Milano, nel corso del convegno sulla famiglia, ad un gruppo di "separati fedeli” (orrenda terminologia, mi sembra, che però spiega): "La vostra scelta non è capita perché è profetica". E quindi fastidiosa, come sempre sono stati i profeti. Perché distraggono dal pensiero dominante, perché dicono cose poco piacevoli, perché “il mondo progredisce e voi siete integralisti e conservatori”.
I profeti, conservatori?

Dio t’aiuti, la cosa più giusta che si poteva dire ad uno strampalato come me.
Che Dio t’aiuti: vorrei dirlo e lo dico a tutti i poveri, nuovi e vecchi.
Ma pure ai ricchi che, come diceva il grande fisico e uomo Pierino Pasolini, ne hanno forse ancor più bisogno.
Che Dio ci aiuti. Tutti.

(foto mia, Cattedrale di Barcelona, 2015) _________________________________________


Ho letto il tuo ultimo post, dalla Terrasanta. 
Ho avuto la percezione che questa foto lo riassumesse visivamente: Gerico, deserto di Giuda dove Gesù ha lottato e vinto il Divisore... Grazie!
Un abbraccio, oltre alle nostra preghiera
Alessio e Francesca

mercoledì 8 luglio 2015

La grande bellezza

Era quaranta anni fa, all’alba di uno dei primi giorni d’autunno.
Arrivai nel profondo nord col cuore proteso fuori, ben disposto. Pur dopo una notte in bianco in un allucinante viaggio in treno. Al bar della stazione bevevano bicchieri di vino bianco e grappa, io sconcertato bevvi il primo cappuccino in terra di confine.
Mi attendevano tredici mesi di servizio militare.

Quella mia partenza era stata a lungo discussa, coi miei amici. Avrei voluto essere obiettore, ma all’epoca era complicatissimo. Sprecavo un anno abbondante di vita per fare cose che mi apparivano scemenze, specie a quei vent’anni. Poi invece, insieme, venne fuori che si “doveva” andare. Si doveva, come tutti, cittadini soggetti alle leggi dello stato.

Partii col cuore leggerissimo e onestamente debbo dire di avere vissuto una esperienza in-raccontabile e forse pure incomprensibile.
Perché lì mi fu chiaro, chiarissimo, quanto contano nella vita i rapporti. I rapporti tra le persone. Le persone, che sono prima di qualunque cosa. E quindi la donazione, eventuale, con il cuore “oltre”.

Militare in una caserma che poi venne abbattuta nel post terremoto dell’anno dopo. Ma la cosa particolare era che lì vicino, in città, c’era gente che viveva come me. Abbiamo insieme vissuto qualche mese in forte simbiosi, specie con qualcuno di loro. Poi, a pochi chilometri dalla mia caserma era militare un altro nostro "consimile", che aveva il padre ministro nel governo dell’epoca. Quando non ci muovevamo insieme per la città, avevo la sua macchina a disposizione, un Dyane 4 che si accendeva con uno stratagemma, manco servivano le chiavi. Con questo miracolo a quattro ruote andavo in città quando serviva, costruivo con questi amici il mondo nuovo in cui credevamo fermamente e forse pure in modo puerile. Ma fu cosa seria, molto seria.
Era la nostra vita che metteva solide radici (“le radici sono importanti!”).

Ero il solo della mia caserma che non sognava il trasferimento vicino casa.
Un giorno, alla fila per il pranzo, mi cercarono, convocato d’urgenza al comando di Compagnia. Incredibile: ventiquattrore dopo dovevo essere a Roma. E chi lo aveva chiesto mai? Il capitano addirittura mi chiese se potevo in qualche modo far trasferire pure lui…
Dovetti lasciare un mondo in crescita, rapporti che promettevano, una terra e gente bellissime: si apriva un nuovo capitolo della vita.

Qualche anno dopo, era appena nato il mio primogenito, ad una scuola un po’ speciale ritrovai l'amico con cui avevo allora più costruito. Eravamo un bel gruppo, furono quindici giorni di vita convissuta ai massimi livelli. Massimi davvero.
Poi anni lontani, io feci il giro del mondo. Dovevo farlo.

Adesso, in epoca recente, per varie comunanze, ho conosciuto la moglie. Lei è ora la mia “caporedattrice invisibile”, che legge in anteprima quanto scrivo qui e mi rilascia il primo nihil obstat. Un passaggio importante, questo riscontro con una persona appassionata ed esperta di buone lettere. Col cuore e con la mente presenti, “sul pezzo”.
Sono insieme venuti al mio sessantesimo compleanno, erano i più lontani.

All’ultimo post lei ha commentato “finalmente ho letto... Tiene il filo... parte lontano (dal Giappone...) e arriva all'essenza... ma tiene... Al di là della forma, alla quale sono ormai abituata: virgole, non virgole... subordinate che iniziano dopo un punto... ma questo è il tuo stile ed ha finito per piacermi!”

Dopo il post mi ha scritto pure lui: “ciao Paolino. Solo 2 pensieri-titoli che mi frullano leggendo le tue righe. Una seria, l'altra forse un po’ meno... 
 1) Oggi nel commento al Vangelo (la donna che perdeva sangue...) il celebrante diceva che il "miracolo" non è Gesù che la guarisce nella salute, ma la donna che, per un DONO di DIO, pur nel BUIO, nella PROVA, CREDE all'Amore. Oggi a messa sentendo questa affermazione sentivo Gesù mi parlava dentro e... mi sono commosso in lacrime. 
2) Ma com'è possibile che a qualcuno possa piacere La grande bellezza??? Aiutami a capire. cmq ti abbraccio da fratello.”

Non faccio il critico cinematografico. Forse La grande bellezza mi piace perché tanto mi ci trovo dentro. Mi piacerebbe averlo fatto io (anche se qualcosa lo avrei fatto diverso)!
Mi tocca nel profondo, come tanti anni fa accadde con Palombella rossa (un film che piace a pochissimi, pur essendo - per me, ovvio - un capolavoro). Come La tigre e la neve, in epoca più recente.

La grande bellezza: la cercavamo pure noi. Ma non nella Roma caput mundi del film… io la trovai in una squallida caserma, e oggi, direi quasi, qui in questo solitario eremo.
La grande bellezza è pure in questa storia nostra, al limite del credibile.
La grande bellezza è dentro di noi, amico mio, fratello.
E poi lo sai meglio di me, no?

(foto mia, Umbria - estate 2015) 
PS: Questo post, con questo titolo, meritava una foto apposita. 
Ho pensato ai girasoli che qui da me, proprio ora, sono nel massimo fulgore, poi appassiscono. 
Dato che la luce è importante (come le radici!), sabato mattina ho messo la sveglia come andassi al lavoro. Una levataccia per fermare in fotografia la breve storia di bellezza dei girasoli. 
(La risoluzione permette, volendo, di utilizzarla come sfondo per desktop. La foto è scaricabile: click con tasto destro sulla foto e poi “salva immagine con nome”).

domenica 28 giugno 2015

Le radici

L’estate è qui.
Ho dovuto prenderne atto ed occuparmi, molto, anche della terra, dello spazio che ho attorno e che necessitava urgenti attenzioni. Poi tante altre vicissitudini. Con una sensazione di stanchezza diffusa, che comunque riscontro in tanti. Forse serve una bella vacanza!?
Qualcuno mi ha fatto presente che sono un desaparecido, qui sul web. Vero. Le fasi della vita non sono mai uguali, ma già lo sapevo. In questo periodo ho anche scritto tanto, forse troppo, senza mai concludere. Una sorta di blocco, molto sereno.

Nel settembre scorso sono andato in Giappone a trovare mio figlio e la sua sposa. Tante ore di viaggio: tra un sonnellino, leggere e scrivere ascoltando musiche sconosciute, c’era tempo pure per vedere qualche film. Volavo con Alitalia, e quindi c’era una scelta ampia di film in italiano. Ho scovato un film di cui avevo vagamente sentito qualcosa. E aveva pure preso l’Oscar: La grande bellezza. Un film che mi ha affascinato e coinvolto sin dall’inizio, tanto che me lo son rivisto pure al ritorno. Poi tutte le notizie possibili anche su youtube. Finché una sera, che ero alla ricerca di qualche cartoon per i nipoti, l’ho trovato in DVD ad un prezzo allettante. E quindi l’ho visto e rivisto, nella sua magia che trascende persino alcune parti onestamente per me malfatte, come l’episodio della “santa”.
Ma alla fine ben venga pure questa forzata vicenda, se permette di esplicitare il filo che tutto lega - questo è quanto ci leggo io, col mio vissuto - nel proclamare: “le radici sono importanti”!
Non mangio e presumo non mangerò radici, nemmeno ne farò infusi, come dice quella specie di cardinale in Rolls Royce.
Ma le radici sono davvero fondamentali, e me ne sono accorto nei venti anni di duro deserto interiore quando le radici esistenziali parevano, anzi erano, proprio dissolte. Poi, in un momento culmine di dolore, la ricerca delle radici è sfociata nel ricostruire dentro di me il Credo. Ricostruire davvero, parola dopo parola, nelle prime notti solitarie dopo anni di matrimonio. Lo avevo dentro, sperso in qualche parte irraggiungibile all’apparenza, sopravvissuto a una ventina di anni di lontananza.
Ma le radici ci stavano. E una parola dopo l’altra, in una notte insonne dopo l’altra, sono giunto alfine a poter dire il mio Credo interamente e con grande gioia. Che assumeva un significato davvero nuovo, nel contesto impensabile del momento.
Credo. Credo in questo Dio della Chiesa di Roma, nonostante - anzi: proprio! - per quello che sta avvenendo, per il sangue immane in cui vivo (e non potevo immaginare che si sarebbe centuplicato). Un'alba imprevista e nuova, finalmente!

In questo periodo ho trovato anche tanti nuovi amici. Uno di loro mi ha poi scovato qui sul blog, e mi ha scritto: “Ciao Paolo, mi sta passando il forte risentimento verso mia moglie!!!! IO SONO CATTOLICO APOSTOLICO ROMANO. Così, con questa convinzione sono tornato da Roma. E nel mio percorso “arduo” ho comprato un libro del catechismo e fatto un download del catechismo di Pio XI. Proprio stamattina pensavo che abbiamo la medesima idea del sacramento del matrimonio. INDISSOLUBILE!!!”

Un caro amico, che non vedo da una vita - circa trenta anni, di recente mi scriveva della sua salute. Un tempo faceva il presentatore in importanti convention, oggi fa il malato. Ma, mi dice, sempre Dio è.
Un amico con problemi di lavoro ed una famiglia numerosa e monoreddito cui pensare, mi confida che ha dovuto ri-centrare la sua vita solo in Dio, mollando tutte le "cose da fare", pure sante e buone.

Domenica scorsa, al mattino presto, ero ancora in dormiveglia, squilla il telefono e whatshapp mi consegna un pensiero di Igino Giordani, che arriva proprio preciso: "Cristo venne per darci una vita e una vita più abbondante. E ci diede i mezzi per conseguirla: mezzi che si riducono ad un fatto solo: AMARE. Ami ed hai la vita. Ami di più ed hai una vita più abbondante."

(foto mia - Umbria 2015)

mercoledì 15 aprile 2015

L'essenziale è invisibile!


Prima domenica dopo Pasqua.
Il Vangelo ripropone il famoso episodio di Tommaso, l’incredulo. Uno fuori dal coro, mentre tutti credono. Ha sempre fatto una pessima figura, a mia memoria.
Un giovane frate ne parla all’omelia. Inquadra tutto da un altro punto di vista. Finalmente qualcosa di nuovo. E di incredibilmente attuale.
I discepoli sono nella paura, chiusi dentro quattro mura, tra di loro. Solo Tommaso manca: è uscito! Andava nel “mondo di fuori”… non aveva paura, stava oltre.
E quando torna, pragmatico, vuole toccare. E tocca il Figlio di Dio risorto. Tocca con mano.
Come non vedere la modernità in Tommaso, l’uomo del ventunesimo secolo? L’uomo che esce dalla sua terra e va, che deve poi toccare con mano e credere per sua esperienza diretta e non per sentito dire?
Mi ci trovo appieno, e ci vedo gente che ben conosco.

Scrivevo del più lungo inverno.
Un inverno più che altro interiore. Ma pienamente nella norma, direi. L'inverno che è una delle stagioni, dell'anno e dell'esistere. L'inverno che non è roba da poco, o da scartare, o da evitare. L’inverno che permette al seme di crescere e generare, al buio e all’umido, sotterrato, dimenticato, invisibile. E soprattutto: impensabile, incomprensibile. La stagione senza cui non esisterebbe la primavera, e poi la fioritura e poi la raccolta dei frutti.
Eh sì, il miracolo che ogni anno si ripete nella natura, incessante. Sotto gli occhi di tutti seppur invisibile. Sarei tentato di citare il Vangelo del chicco di grano. Ma non oso, non so. Però di certo l’inverno si sente, l’ho sentito molto quest’anno, specie in questa fine stagione. Una serie ininterrotta di mazzate in testa. Questo silenzio dello scrivere qui ne è testimonianza. Ma quando hai le energie altrove dedicate, non puoi fare altro che occuparti del vivere del momento presente. Tutte mazzate che riconducono, oggi ne tiro le somme, alla mia scelta di vivere nel mio matrimonio, ancora, e ancor più ogni giorno.
So bene che è poca cosa rispetto ai problemi che l’umanità oggi vive: la solitudine di un matrimonio e, mi si consenta, non solo del mio ma dei tanti - invisibili, impensabili - che nel mondo abbondano. Ma è la mia vita, la sola vita che ho, che posso e debbo vivere fino in fondo davanti a Dio. Nella prospettiva direi dell’eterno e non del contingente di oggi. Perché altrimenti sarebbe inevitabile cadere nel carpe diem. Cosa che ho già in qualche modo vissuto e mi ha lasciato decisamente, amaramente, insoddisfatto.

Non ricordo se ne ho già qui scritto, di certo ne ho parlato tante volte.
Il giorno del matrimonio era con noi un amico carissimo che stava in carrozzella da undici anni, a seguito di un incidente stradale. Guardando lui ebbi un pensiero d’allarme quasi: e se domani questa creatura che sto sposando ha un incidente pure lei? Sono in grado di rimanerle accanto, nel “per sempre” che, forse pure incoscientemente, sto promettendo, davanti a Dio e davanti agli uomini? Dissi il mio sì in una consapevolezza nuova.
Poi non ci sono state malattie, incidenti stradali, ma qualcosa forse di molto peggio - e lo dico con molto rispetto del dolore “fisico” di tanti, che un po’ conosco pure quello. Il peggio è la separazione, lo strazio di questo rapporto interrotto. Il sangue che sgorga dal “un solo corpo” sventrato, dalla solitudine del cuore, dal tempo che inesorabile scorre mentre non esiste “reciprocità” coniugale.
Ma vorrei dire: e se la mia sposa avesse un tumore, potrei abbandonarla? Se stesse in carrozzella, fuggirei altrove?

Sono stato recentemente redarguito - presumo a causa di un equivoco - perché, mi si rimprovera, Dio non vuole il dolore. Beh, è evidente, lo so molto bene. E certo ne farei volentieri a meno. Dio è amore: non è una novità, la prima lettera di Giovanni lo proclamava chiaro già venti secoli or sono. Il Dio cristiano è Trino, solo amore in circolo, reciprocità. E il dolore nasce sempre fuori dalla “volontà di Dio”. Nasce sempre dagli errori umani, che in cattiva, e persino in buona fede, generano e propagano sangue. Ne so qualcosa, sia in termini attivi che passivi. E so di parlare relativo: la mia esperienza. Ma come non dire della forza generatrice del dolore, della forza redentrice del sangue? Certo, dipende da come si vive, dipende dal vissuto di ciascuno, i fattori in ballo sono tanti e non si può assolutizzare. Nemmeno Dio lo fa. E la parabola dei talenti pare dirlo a chiare lettere.
Però esiste un mondo che è oltre il tangibile, come direbbe il Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Come la vita del seme sottoterra, al buio, sconosciuto, silente, dimenticato...

(foto mia - Umbria 2011)

sabato 21 febbraio 2015

Il più freddo inverno


Inverno pieno, le giornate hanno preso ad allungarsi, oramai si è svalicato.
Capita di ripensare ai tanti miracoli vissuti, specie nei primi tempi, qui nell’eremo, nella nuova vita da solo.
Ho incredibilmente ricordi vaghi e stavo davvero come uno cui è appena passato sopra un carro armato. Non so proprio come ho potuto vivere quegli anni. E forse nemmeno si può capire. Espropriato di tutto il vissuto, anche la casa andava tutta inventata, dai bicchieri ai mobili, tutto. Avevo qualcosa di biancheria di mia madre, e pure qualcosa delle nonne (lenzuola centenarie oramai!).
Mi giunse inizialmente il grande dono di un letto matrimoniale con tanto di materasso da Alfonso e Patrizia. A loro avanzava, ma forse no: era il modo per farmelo accettare.
Ma il dramma vero era il tetto, ci pioveva in parecchi punti e solo dopo due inverni ho potuto sistemarlo, quando finalmente è arrivato un ulteriore prestito, oltre il mutuo iniziale.

Una mattina d’inverno nel sottotetto, la mia camera da letto, il termometro segnava 4 gradi. Decisi di andare a dormire al piano sotto, era un poco meglio. Poi la notte mi svegliai che mi girava tutto, vomito. Dal cellulare non riuscivo a chiamare nessuno: non vedevo. Se mi alzavo cadevo.
Forse era giunto il mio momento. Prima o poi arriva, sempre. Certo qualcuno mi avrebbe cercato, prima o poi.
A Maria, sempre presente, dissi che tutto era nelle sue mani. Sereno, caddi nel sonno, ma poteva essere altro.
Poi all’alba quasi, presi conoscenza e con dolore riuscii ad alzarmi barcollante ma senza cadere. Chiamai diverse persone, ma solo un amico, dopo tanto, si svegliò. Venne a prendermi col suo fuoristrada e mi accompagnò in ospedale.
I medici al pronto soccorso parevano scettici, poi una dottoressa pensò di farmi camminare dritto e con gli occhi chiusi… e caddi. Ricovero immediato in Neurologia.
Mi venne a cercare il primario, cortesissimo:"signor Paolo, sembrerebbe un ictus, però dobbiamo fare altra indagine per avere conferma". 
Su un immenso monitor guardai insieme a due medici tutto il mio cervello. Non era ictus.
Venni poi dimesso con una diagnosi col punto interrogativo, dato che nulla si capiva chiaramente. Presunto problema al sistema auricolare. Forse pure il freddo aveva la sua parte. Ma forse pure lo stress.
Comunque tornai a casa il 24 dicembre. Si festeggiò Natale in qualche modo. Scrissi una lettera ai figli.

Questo inverno attuale è oggettivamente molto meno freddo dei passati, eppure vivo un freddo glaciale, più che mai. Forse la solitudine, forse gli anni. Certo, non sono fatto per vivere solo. Bambino e poi giovane trepidante, sognavo la fine della mia solitudine come in una grande liberazione, sino a quando a ventisette anni siamo divenuti due in uno.
La bellezza dell’insieme. La unicità, la profondità. Il cuore proteso oltre.
Poi il sangue, la solitudine vera. Il freddo reale.
Un solo disegno che si dispiega, nel tempo, nell’inimmaginabile, sino a questo scrivere.

Mi è giunta una mail, riguardo a Margherita C.: “…ti scrivo, ora, non per approfondire il tema del vangelo e dell'Amore come rivoluzione pacifica e colorata che può cambiare il mondo, probabilmente ciò tornerà così evidente in questi tempi bui, ma per ricambiare il dono che sempre porti, ovunque tu ti esprima, quasi un carisma personale che Dio ti ha donato, ed è il dono di rivestire di carne umana l'Invisibile. 
Alcuni anni fa, come fugge veloce il giorno! -, organizzasti un rendez vous con alcuni protagonisti di quegli anni, con alcune figure, per me ancora notevoli, di quell'avventura della mia adolescenza; evento cui fui anch'io invitato. 
Ad un certo punto… per me fu un'improvvisa illuminazione, si aprirono le porte della percezione, in un istante compresi con tutto l'essere ciò che fino allora avevo assorbito senza averne una piena comprensione, oppure solo una comprensione mentale: la bellezza, l'intensità, la grandiosità per noi di quei nostri anni… concludo ringraziandoti per avermi ancora una volta riportato a quegli anni, a quell'atmosfera, a quel vissuto nei solchi del Vangelo; ma, soprattutto… di avermi ricordato quanto collettivamente abbiamo vissuto e costruito, creduto e sperato, dato e ricevuto amore fraterno, sperimentato per lunghi tratti un modo diverso di essere società, comunità, relazioni significative in movimento, persone amate e accolte sine qua non…
Non ci saranno fallimenti personali o collettivi che potranno rendere nullo l'autentico vissuto. 
Ciao, Paolo. Il Signore ti sostenga nel martirio dell'amore. Fino ad oggi c'è riuscito! E sii memoria viva, ancora.” 

(Foto mia, Umbria 2015)

mercoledì 4 febbraio 2015

Margherita C.


Correva l’Anno Domini 1970.
Nel pieno dei miei 16 anni.
La prima contestazione giovanile era ancora nell’aria, le istanze rivoluzionarie e il bisogno di cambiare il mondo erano cosa di tutti i giorni. Nelle scuole si scioperava per tutte le ragioni possibili (e pure impossibili).

Avevo vissuto un ’68 tutto mio, lo avevo molto radicato dentro. Ricordo le mie angustie agli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy. La giustizia sociale, ma soprattutto - e mai se ne parlava: l’amore come soluzione finale. Il Vangelo. È di quegli anni il mio leggerlo e rileggerlo, quasi a impararlo tutto. Poi ci stavano Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone. Non erano Vangelo nudo e crudo, ma tutto di loro sempre lì mi riconduceva.
Forse mi nacque allora, ma decisamente inconscio, quanto affermai tanti anni dopo ad una caro e sapiente amico durante una passeggiata nei boschi svizzeri: “Sento il bisogno di far incontrare, di far toccare Cielo e terra”. E lui: “Figlio mio, e a chi non piacerebbe?

A sedici anni avevo già vissuto… tanto. E quello fu un anno proprio difficile.
Corsi anche il rischio di cambiare modalità di lotta, che tanto pareva impossibile cambiare pacificamente. La sola rivoluzione che alfine rischiava di apparire concretizzabile era quella cruenta. Ricordo che in casa litigavo con i miei vecchietti di continuo, tutte le occasioni erano buone. Eravamo mondi davvero lontani.

Nel mio palazzo abitava una anziana signora, Margherita C., classe 1900. Mai sposata, aveva affetto per me e mio fratello. A Natale avevamo sempre suoi regali. Un suo LP di Jimi Hendrix devo ancora averlo qui in giro… sarà inorridita nel comprarlo!?
Un giorno, incontrandomi, mi disse di una rivista cui era abbonata e che desiderava farmi leggere, poteva interessarmi. Si chiamava Città Nuova, ed era proprio strana, anomala. A me capitava di leggere altre riviste, credo Panorama, forse pure l’Espresso. Ma questo giornale era davvero particolare. Positivo, si parlava di vita vissuta, di Vangelo possibile e comunitario. Impossibile!? Io avevo oramai forti antipatie per i “cristiani della domenica”, e qui invece gente che parlava di Vangelo come le proprie tasche.
Ero sotto shock: questa la vita che sognavo, più leggevo e più ero affascinato. Attendevo trepidante che mi arrivasse la rivista. Certo avrei dovuto parlare con questa gente, ma la sola via era andare direttamente al giornale.
Erano altri tempi davvero, ed ero proprio giovane. Stavo titubante: vado, non vado, quando trovai una serie di indirizzi. Anche a Roma, anche nei miei paraggi (trenta minuti abbondanti a piedi).
Erano i primi di luglio, telefonai. Appuntamento il giorno dopo con un certo architetto. Mi presentai puntualissimo. Lui poi mi raccontò, e quanto ci abbiamo riso - è poi stato mio testimone di nozze, che vedendo alla porta un giovanetto pensò che capitava inopportuno, dato che aspettava il "signor Ricci" e non poteva dividersi!
Beh, chiarito il qui pro quo… ricordo solo che ci fu una specie di rapimento in Cielo.
Avevo trovato il Tutto, era lì la pietra filosofale, il fine di ogni mia ricerca di Verità. La Verità dei 16 anni, almeno quella dei miei tempi: una cosa seria.
Tornai a casa con una sensazione forte, e la ricordo molto nitida: se ne fossi stato capace avrei fatto capriole, ruote, piroette, salti mortali, invece che camminare... Ma li facevo comunque nel cuore festante.
Ai primi agosto ci stava un convegno di questa gente all’Aquila…. Era preciso per me! Mai mi avrebbero permesso di andare altrove, ma lì quasi giocavo in casa! Avevo qualche piccolo risparmio: ricordo che attraversai Roma, sino a viale Trastevere, e con diecimila lire acquistai una tendina canadese, quella più economica possibile. Mi attrezzai alla meglio e partii.
Ai bordi del campo sportivo dell’istituto Salesiano piazzai la mia tendina e vissi la settimana incredibile che cambiò il mondo, il mio mondo.

La prima svolta fu che in casa cessarono quasi di colpo i litigi. Evidente che dipendeva da me, tutto sempre dipende da me. Certo, le cause magari stavano sempre lì, ma era il mio vivere diverso che cambiava tutto.

Dopo ben 45 anni, questo mio ricordare di stasera nasce dall’esigenza, improvvisa ma ineluttabile, di ricordare Margherita C. Non so quando sia partita, oggi avrebbe 115 anni.
A lei giungano queste righe: le sono dedicate con gratitudine.
Ho con lei un debito grande, devo ringraziarla ancora. Ma certo riuscirò a farlo direttamente… è solo questione di tempo.

(Foto mia, da un dono recentemente avuto da persona a me sconosciuta - che ringrazio!)

lunedì 26 gennaio 2015

Latino America!

Qui nel mio eremo ha appena iniziato a risuonare la Messa da requiem di Luigi Maria Cherubini. E' la sensazione di oggi, di ora. E capita di avere bisogno di questa musica che contatta il Cielo e la terra senza posa.

Tornando dal lavoro mi son trovato commosso, manco vedevo più la strada, e meno male che aveva smesso di piovere. Tante lacrime, ma non amare, solo d’amore.
Mio figlio e la sua sposa sono a Fiumicino, in partenza per nuova avventura. Stavolta nel profondo sud America, a dodicimila km da qui. Ricordo che iniziò lo studio dello spagnolo - dopo l'inglese e il francese - al pensiero che era la lingua più parlata al mondo, e quindi non poteva non conoscerla… pare avesse tutto già segnato.

Loro sono contenti, seguono la loro strada. Non facile, anche se motivo di soddisfazioni profonde. Io tifo per loro, ma certo le distanze ci sono. Anche se loro le hanno in qualche modo accorciate, già col loro sposarsi.
Figli di questa epoca, diversa dalla mia… ah! cosa ne direbbe mio padre, che era altro mondo ancora! Penso alla dedica che stò figlio ha apposto sulla tesi di dottorato. Prima giustamente ci stava una dedica in cinese, poi altre in italiano e pure in francese: ai genitori, e poi, inaspettata, che poco li ha conosciuti: “Ai miei nonni, che sono sempre con me”. Credo sia profondamente vero, per quanto gli volevano bene.

Sono stati qui una cinquantina di giorni, pochi ma tantissimi rispetto allo zero. Di passaggio, dopo gli anni in Giappone. Abbiamo vissuto un Natale davvero diverso, anche se ancora qualche tassello pare mancare al Natale stereotipo (beh, non siamo proprio una famiglia alla Mulino Bianco!).

Ma devo dire che la famiglia è sempre più vera. Sarà che ci ho lavorato, sarà che li ho visti contenti, sarà che ieri sera c’è stata forte commozione al saluto dei nipotini che già quasi dormivano nei loro lettini.

Ridendo mi hanno rimproverato che li vizio! Ma come esimermi? Ho insegnato loro che esiste il Campari, e quindi il suo grandioso derivato Negroni. Ho cucinato quanto e come potevo, e mi è stato assegnato un virtuale e affettuoso "5 stelle Michelin". Siamo stati a fare turismo, col gelo e con la pioggia. Abbiamo insieme preparato ricette orientali e nostrane, giocato a carte sino al sonno, anche.

In questa fase natalizia avrei voluto “essere”, in calma, meditazione. La parte essenziale. Il silenzio. Quello necessario, che scandisce il tempo. Dice che un altro Natale passa, un altro anno sta andando. Il tempo che allontana ed avvicina. Il tempo che conduce alla Verità. Il tempo che è la sola cosa che l’uomo ancora pare non dominare.
Ma non è stato possibile “essere”, c’era da fare. C’era il dare, e quindi il “non essere”, per i figli.
Un anno raro, con tutti qui. Per la loro e anche per la mia beatitudine. Loro hanno bisogno di questa famiglia, seppur non integra. Ma pure io ho bisogno di loro, di amarli.
Bisogno di riaffermare che questa è una famiglia, vera, per quanto addolorata, sventrata.
Riaffermare che questa nostra è forse più famiglia delle altre.
Nasce al momento delle promesse, specie quelle che presto si dimenticano: nel dolore e nella malattia.
Cresce poi nel sangue, nella spaccatura si consolida.
Siamo in crescita, il fine è altrove. La vita non termina.

Ho conferma che gli ultimi confini della terra, seppur lontanissimi, sono oggi qui, da me, che tutto posso com-prendere e racchiudere ed amare.
Nelle lacrime non-amare… il filo che tutto lega, seppur poca cosa, è il mio cuore e il mio impegno.
Il cuore, come sempre.

(foto mia, Barcelona 2014)

sabato 10 gennaio 2015

Essere e non essere

Essere o non essere
Falso problema, quello di Amleto.

Da quando il figlio di Dio si è fatto uomo,
in una grotta, circondato da bestie e letame
e con la madre e il padre
che padre suo non era,
ma poi lo era più che chiunque altro
sulla terra, mai.

Essere o non essere,
falso problema.

Un Dio che è Dio ma non è Dio, è uomo,
che è Signore dell’eterno, e muore
e muore nel modo più ignobile immaginabile,
nel suo tempo.

Essere Dio ed essere non Dio
essere uomo ed essere non uomo.

E da allora
milioni di umani che hanno invece vissuto
essere e non essere.

Questa la Verità.

Essere uomo ed essere Dio
Essere mortale e vivere l’eterno, già in terra
Essere di carne, e vivere nello spirito
Essere tutto e non essere tutto
E quindi essere nulla
Essere nulla, ma essere tutto,
il tutto di Dio
e poi, pure, essere sposato, e non esserlo.

Essere tutto e il suo contrario
Essere nulla e il suo contrario
Essere peccato ed essere redenzione
Essere morte ed essere vita
e via dicendo, tutto l’umano scibile.

Essere e non essere,
questo il dilemma,
questa la Verità…

(foto mia, Firenze 1978)