venerdì 29 aprile 2016

Tumori...


A volte, ma forse sempre, il tempo torna padrone.
Torna padrone perché, in esso, in questo caso nell’arco di ventiquattr’ore, accadono cose che inevitabilmente arrivano a lavorarti dentro, nel profondo.

Ieri giornata particolare: compleanno di mio padre, virtuale perché da tempo non è più in terra. Poi: funerale di un amico caro, Piero. Un uomo grande, partito in pochi giorni con un tumore appena scoperto e subito operato. Il duomo pieno, come era giusto che fosse. La moglie Paola è incredibile, come sempre. Ha parole di conforto per chiunque va a salutarla. Guai a parlare di condoglianze, in questi casi. Si respira aria di Cielo. Qualcuno mi dice che Piero, che ha sofferto non poco negli ultimi giorni, salutava con un occhietto di intesa. Ci sto, eccomi, sembrava dire. Pronto.

Oggi vado a trovare un altro amico carissimo. Operato ieri per la terza volta per un tumore. Con lui ho molte cose in comune, dall’età alla separazione subìta, all’Abruzzo. Ci prendiamo sempre in giro come fratelli veri, anzi più. Lo trovo seduto, con la morfina. Più che un bronzo di Riace pare un bonzo: cerco di farlo ridere, ma anche volendo non può. Però mi sorride. So che è dura. E le parole non servono. Ridondano.
Mentre sono lì arriva Mario, altro amico un po’ più avanti di noi (in tutti i sensi). E vengo a sapere del suo tumore, anche lui, con cui convive da tempo e che sta lì, fermo. Dice che vive con una bomba ad orologeria dentro. Prima o poi esplode. O forse altro farà prima di questa bomba. Di una serenità disarmante. Siamo in altra dimensione. Leggerezza. Il tempo è fermo.
Penso a mia madre, che sopravvisse poco a papà, anche lei con tumore. E so bene di essere pure io "soggetto ad alto rischio". Ho coscienza piena del mio orologio.

Tra ieri e oggi è in corso uno sconvolgimento, dentro. Esco da una fase difficilissima e mi ritrovo - miracolato - ad avere occhi nuovi. I turbamenti e le ansie di questi tempi recenti prendono luce, trovano un senso.
La certezza del mio errare solito: nei modi, non tanto forse nella sostanza. Essì, so bene che il contenitore può guastare il contenuto. Nella comunicazione sono entrambi importanti, anzi. Ma io continuo da imperterrito figlio del ’68, che brucia la forma per lasciare la sola sostanza.
E inevitabilmente tardi giungo a ricordarmi degli insegnamenti di Paolo, l’apostolo delle genti: se anche avessi tutto e tutto fossi… e non ho la carità? Cembalo sonante!

Tutto dissolto pare, stasera.
        "E subito riprende 
         il viaggio 
         come 
         dopo il naufragio 
         un superstite 
         lupo di mare" 
...

(Foto mia, Sangro River War Cemetery, aprile 2016)

giovedì 7 aprile 2016

Dovevo dire

Stamani, in dormiveglia, ho avuto un flash. Mi son ricordato di cose scritte tanti anni fa e che non ho condiviso con voi qui sul blog. Grave! 
Era il gennaio 2009, ed ero di ritorno da un Convegno di Separati a Castelgandolfo. Con le ferite freschissime, credo di essere intervenuto più volte, e al ritorno scrissi queste righe, inoltrate poi ad amici che erano presenti.

Domenica scorsa, quando sono intervenuto al Convegno dei Separati, stavo molto elettrico, perché avevo tante cose da dire, da condividere, donare, e invece ho fatto un intervento quasi inutile, rispetto a quanto volevo. Mi sono riascoltato, ed ho ricevuto una bella lezione per il mio orgoglio.
Volevo essere trasparente strumento dell’Eterno, e invece: il mio parlare romanesco, magari simpatico, ma certo impossibile per i traduttori. Che deve evolversi in italiano.

E poi:
Dovevo parlare delle mie notti, di come il silenzio e la solitudine siano strumento di Dio, di come il tempo che corre è quasi Dio stesso, quando permette di innestarsi nella Storia.
Dovevo dire che la Storia supera la fantasia degli uomini.
Dovevo dire che la notte è il momento più traumatico per un abbandonato, specie all'inizio, ma forse peggiora pure. E ora dormo sereno. E la fede mi è implosa nelle notti di abbandono: grazie alla mia sposa.
Dovevo dire che le mie giornate scorrono veloci, con tantissime attività, dal teatro alla cucina al video alla fotografia. E la noia, “pane secondo dell’uomo”, mi è estranea.
Dovevo dire che possiamo aiutarci davvero, che siamo un corpo solo, che il dolore è nulla confronto alla libertà che poi ne nasce.
Dovevo dire che si può vivere nella libertà dal male che si subisce, e anche da quello magari compiuto: la libertà dei figli di Dio, di chi sa di avere un Padre che ti ama comunque.
Dovevo dire che il cuore di Dio contiene i cuori nostri e di tutti coloro che ci hanno abbandonati, seguendo magari sogni bambini, in cerca di se stessi e di gioie impossibili.
Dovevo dire che la felicità è altro da quel che tanti pensano di trovare altrove, nella terra nemica del demonio che annienta.
Dovevo dire che se noi siamo nel dolore, altri stanno forse peggio: chi fa il male, sta male, e certo non trova felicità; e chi fa il bene può stare bene dentro, perché esiste un ordine superiore delle cose, che travalica le nostre miserie.
Dovevo dire che più amo la mia sposa, più ne sono innamorato: una specie di “a chi mi ama mi manifesterò”. E “questo lo fa l’amore”.
Dovevo dire che “la morte si sconta vivendo”, e che magari siamo già quasi in paradiso, dobbiamo solo acquisirne coscienza.
Dovevo dire che l'amore è amare, oltre sé e il proprio dolore, e non: aspettare l'amore altrui.
Dovevo dire che il dolore dell’umanità è il mio, che lacera anche la mia anima: tutti siamo un solo corpo, inscindibile. Ovvero: “ciò che mi fa male è mio”.
Dovevo dire che stiamo vivendo una poesia, lacerante e dolorosa, ma poesia dell'anima, vera, eterna.
Dovevo dire che bisogna coltivare la fede nel disegno di Dio sulla coppia che, in un equilibrio umanamente forse impossibile, certo non muore con una sentenza di tribunale o una distrazione carnale.
Dovevo dire che quel che conta nella vita non è ciò che sente il cuore, ma stare nel cuore del Padre. Ovvero nel suo disegno.
Dovevo dire che il disegno del separato è perdere il progetto del proprio matrimonio “realizzato”, per un progetto nuovo, un amore più grande. Perdere Dio per Dio, essere Maria nel presente dolorante, che vede il demonio vincente. In un equilibrio nuovo, accettare l’inferno che avanza. Let it be. E rimanere fedele.
Dovevo dire che tutti i nostri occhi saturi di lacrime gridano vendetta al cospetto di Dio, la vendetta d'amore di Gesù sul Golgota.
Dovevo dire che l’amore non è Hollywood, ma Gesù che si immola: “questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”, e questo siamo noi per chi è “carne della mia carne”. 
Dovevo dire che, comunque sia, tanti nel mondo vivono baratri ben più grandi dei nostri.
Dovevo dire che le nostre voragini, nell’anima, sono solo degli immensi contenitori dell’Amore di Dio, se gli permettiamo di entrare.
Dovevo dire che son cresciuto più in questi due ultimi anni che nei quaranta precedenti.
Dovevo dire che sin da giovane avevo anch’io chiesto “dammi tutti i soli”, e che ora ci sono in pieno, “sole” tra i soli, ad illuminare queste tenebre soffocanti. Sì, siamo soli di solitudine, ma possiamo essere al contempo “soli” che illuminano e scaldano. Coincide.
Dovevo dire che il Corpo mistico esiste, che il nostro morire non è inutile, se innalzati da terra: il motore vero della Storia.
Dovevo dire che non cambierei la mia vita con nessuno al mondo.
Dovevo dire che Dio è Amore, e certo non manda prove superiori alle capacità.
Dovevo dire che senza Dio non è possibile manco la serenità, figurarsi essere felici.
Dovevo dire che ho urlato al cielo, e non si è mosso. È accaduto molto di più, Paolo che si converte.
Dovevo dire che mi son tagliato tutto, casa, telefono, internet, televisione, in un eremo. Solo, concentrato a crescere dentro, senza appoggi.
Dovevo dire che amiche mi ritengono un marziano, raro caso al mondo, e i miei figli e tutti mi premono: “devi trovarti una donna”.
Dovevo dire che il tempo “da soli” che pare sprecato, è tale solo se vissuto senza Dio, che invece eternizza ogni istante.
Dovevo dire che mi sento come coloro che scoperchiarono il tetto per farci passare il paralitico e calarlo alla presenza di Gesù, per farlo guarire. La fede cieca e invadente.
Dovevo dire che uno solo è l'Amore, e il nostro matrimonio cristiano è lì dentro, che Gesù Abbandonato è l'unico bene.
Dovevo dire che a noi più che ad altri Dio sta chiedendo di essere misericordia pura, ovvero il Padre della parabola del figliol prodigo. Ovvero: amare col cuore di Dio.
Dovevo dire che la Carità, quella che eterna dura, “è benigna e tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, tutto ama”.
Dovevo dire che “il mondo passa, e la sua concupiscenza pure, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno”.
Dovevo dire che bisogna giungere a vivere la vita e leggere la Storia con gli occhi di Dio.
Dovevo dire che Dio solo è vero, e che le lusinghe, le sirene che incontriamo ogni giorno sono solo fatuità, sono già svanite. Solo Lui è realtà. Il resto è nulla, “vanità della vanità”.

Queste ed altre cose dovevo dire, che sono la Grazia che sto vivendo in questo tempo, ed ho certo mancato. Potrei pure pensare che non era il momento, non era il caso. Ma invece so che devo pensare che questo mio ennesimo errare altro non è che Lui, ancora, sempre.
Il Dio Abbandonato e bello dei miei sedici anni, sempre Lui.
E allora: un altro importante passo nella salita verso la vetta, un altro motivo per dire, ancor più: “Sei Tu Signore l’unico mio bene, e nel mio errare sempre Ti trovo. Grazie”.

(foto mia, lago Trasimeno, marzo 2016)