giovedì 7 novembre 2013

E quelli chi sono?

Sabato pomeriggio, sto facendo spesa. Mi chiama mia figlia, una voce strana. Stanno portando il piccolo Nenno, otto mesi, al pronto soccorso. Problemi di tosse strana, poi respiratori… Appena posso parto e vado pure io: so che è inutile, ma come potrei stare a casa? Chiamo un’amica medico, viene pure lei. Faccio il viaggio con ansia crescente. Pure pregare diviene difficile. Sto come in trance, cerco di non correre. Quando arriviamo al pronto soccorso pediatrico ci dicono che sono appena ripartiti, tutto a posto. Solo poi capiremo, grazie all’esperienza di un amico “non medico”, che qualcosa era davvero accaduto…
Torno a casa che mi sento invecchiato di colpo, questa botta di ansia mi ha rubato anni. Sono stanco. Mi accorgo in un attimo che questo mio dolore è poca cosa dinanzi ai dolori immani dell’umanità, penso ai tanti bimbi che vivono e muoiono soli, nell’abbandono. Riesco a questo punto a pregare qualcosa, ad uscire dalla mia stasi.

In questi giorni ho fatto la consueta visita ai miei cari, nel piccolo cimitero di montagna in cui sono atteso, prima o poi. Un cimitero che sta crescendo a dismisura, non me ero ancora accorto. In poco tempo son riuscito a fare tante cose, forse troppe, che ero coi tempi stretti. Ma ho comunque imparato che non debbo crucciarmi più per quanto non riesco, e vorrei.
Il viaggio in solitudine, naturalmente. E quindi tanto da pensare: il punto della situazione.
Son contento, in questa fase della vita con pressioni fortissime da più fronti, fase delicata e di grande stanchezza. Come quando arrivi alla fine di una interminabile salita di montagna, e presumi, speri, ci sia un po’ di piano, mica tanto!, quanto basta per riprendere fiato e forze, che la vetta è ancora distante.
Certo, dieci anni fa non avrei scommesso un centesimo sulla mia sopravvivenza. Ma la mia (la nostra!) storia ha preso una piega inimmaginabile.

Son giunto a relativizzare il mio dolore, a contatto con tanti altrui: alcuni mi si dicono, altri li vedo o li intuisco, magari insospettabili, da reazioni bellicose, sgradevoli, volte a ferire. So che chi sta bene fa bene, non semina dolore, non ha bisogno di ferire per vivere. Pure capisco l’inadeguatezza di questo mio parlare di “dolore” del separato, dell’abbandonato: a volte ne ho quasi vergogna, al cospetto di realtà ben maggiori. Quasi verrebbe da fare una scala dei dolori, chi più chi meno. Una operazione sciocca, me ne accorgo. I dolori sono incommensurabili, impossibile farne una graduatoria. Ognuno ha e sa il suo, e tutti sono drammaticamente grandi, e appaiono invivibili. Qualcuno diceva che ogni croce è fatta a misura: credo sia vero.

Da tempo queste parole dell’Apocalisse paiono quasi toccarmi da vicino, anzi spero proprio di trovarmici coinvolto, quando sarà: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? … sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.“

Certo, non basta “la grande tribolazione”: tutti si soffre. Quel che piuttosto conta è attraversarla, rendendo candida la propria esistenze col sangue dell’Agnello. Qualunque essa sia stata, anzi!

Una canzone degli anni settanta cantava di uno che aspettava aspettava e poi… “ho cominciato a vivere forte / solo andando incontro alla morte”.
Il mio tempo è sempre meno, ed ecco il presente che mi torna prepotente: né passato, né futuro.
Adesso, solamente adesso.

(foto mia, Biennale Venezia 2012)

2 commenti:

  1. ...per amarti non ho che ora.

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  2. La tua "vittoria", Paolo, pure quando si manifesta dentro il dolore delle sconfitte, è questa apertura alla ricerca di un senso all'esistenza, la ricerca del Senso, e questo, anche se già nella risposta di fede, ha l'intelligenza del non ancora, ed è in questa santa incompletezza il fascino e l'attrattiva di questo tuo dire. Nella sua eco, s'incamminano in ordine sparso i tuoi lettori...

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