Torno a casa che mi sento invecchiato di colpo, questa botta di ansia mi ha rubato anni. Sono stanco. Mi accorgo in un attimo che questo mio dolore è poca cosa dinanzi ai dolori immani dell’umanità, penso ai tanti bimbi che vivono e muoiono soli, nell’abbandono. Riesco a questo punto a pregare qualcosa, ad uscire dalla mia stasi.
In questi giorni ho fatto la consueta visita ai miei cari, nel piccolo cimitero di montagna in cui sono atteso, prima o poi. Un cimitero che sta crescendo a dismisura, non me ero ancora accorto. In poco tempo son riuscito a fare tante cose, forse troppe, che ero coi tempi stretti. Ma ho comunque imparato che non debbo crucciarmi più per quanto non riesco, e vorrei.
Il viaggio in solitudine, naturalmente. E quindi tanto da pensare: il punto della situazione.
Son contento, in questa fase della vita con pressioni fortissime da più fronti, fase delicata e di grande stanchezza. Come quando arrivi alla fine di una interminabile salita di montagna, e presumi, speri, ci sia un po’ di piano, mica tanto!, quanto basta per riprendere fiato e forze, che la vetta è ancora distante.
Certo, dieci anni fa non avrei scommesso un centesimo sulla mia sopravvivenza. Ma la mia (la nostra!) storia ha preso una piega inimmaginabile.
Son giunto a relativizzare il mio dolore, a contatto con tanti altrui: alcuni mi si dicono, altri li vedo o li intuisco, magari insospettabili, da reazioni bellicose, sgradevoli, volte a ferire. So che chi sta bene fa bene, non semina dolore, non ha bisogno di ferire per vivere. Pure capisco l’inadeguatezza di questo mio parlare di “dolore” del separato, dell’abbandonato: a volte ne ho quasi vergogna, al cospetto di realtà ben maggiori. Quasi verrebbe da fare una scala dei dolori, chi più chi meno. Una operazione sciocca, me ne accorgo. I dolori sono incommensurabili, impossibile farne una graduatoria. Ognuno ha e sa il suo, e tutti sono drammaticamente grandi, e appaiono invivibili. Qualcuno diceva che ogni croce è fatta a misura: credo sia vero.
Da tempo queste parole dell’Apocalisse paiono quasi toccarmi da vicino, anzi spero proprio di trovarmici coinvolto, quando sarà: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? … sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.“
Certo, non basta “la grande tribolazione”: tutti si soffre. Quel che piuttosto conta è attraversarla, rendendo candida la propria esistenze col sangue dell’Agnello. Qualunque essa sia stata, anzi!
Una canzone degli anni settanta cantava di uno che aspettava aspettava e poi… “ho cominciato a vivere forte / solo andando incontro alla morte”.
Il mio tempo è sempre meno, ed ecco il presente che mi torna prepotente: né passato, né futuro.
Adesso, solamente adesso.
(foto mia, Biennale Venezia 2012)
...per amarti non ho che ora.
RispondiEliminaLa tua "vittoria", Paolo, pure quando si manifesta dentro il dolore delle sconfitte, è questa apertura alla ricerca di un senso all'esistenza, la ricerca del Senso, e questo, anche se già nella risposta di fede, ha l'intelligenza del non ancora, ed è in questa santa incompletezza il fascino e l'attrattiva di questo tuo dire. Nella sua eco, s'incamminano in ordine sparso i tuoi lettori...
RispondiElimina