Sere fa mi ha chiamato un vecchio caro amico, allarmato: “Oh, è un mese che non pubblichi: tutto bene?”
Tutto bene, benissimo. Esco da un periodo intenso, ove era arduo trovare concentrazione per scrivere qui. Un periodo in cui ho terminato una lettera che da tempo avevo in animo, e un’altra ne ho avviata. Importanti entrambe, pur completamente differenti. E poi c’è stato il matrimonio di mia figlia! Un avvenimento che posso definire molto più bello dell’immaginabile. Loro belli e bravi, come sempre. Una cerimonia molto partecipata, grazie anche al celebrante. I canti che mi commuovono, specie quando si intona “Di Dio sei il Paradiso, Ave Maria”. Una meraviglia. Come pure tutti e tutto.
Ho pianto tanto, certo. Sempre mi accade quando sento nelle mie fibre il soprannaturale fine. Quando sento che Iddio è lì, presente, palpabile. Forse è la mia sensibilità esagerata, magari un poco folle.
A sera, al termine di tutto, son rientrato a casa, nella mia solitudine solita, tanto stanco che zoppicavo, con crampi acuti alle gambe e ai piedi. E non potevo non ringraziare il Padre per la giornata: tutto andato più che bene, la mia sposa sempre più bella. E il mio cuore sempre più eroso, evidente.
Il giorno dopo, ventesimo anniversario della partenza di papà per l’altra vita: ne ho già scritto. All’epoca, in un buio pressoché assoluto, mi fu di luce un amico “Ci sono momenti in cui il Cielo e la terra si toccano”. Si toccano quando si muore, e si passa in altra dimensione, in Cielo.
Mi rendo conto che questa operazione la compio tutti i giorni, anche, col mio vivere. Quando muoio e passo in altra dimensione. Muoio a me stesso e all’istante risorgo, passo a vivere altro. A cosa servirebbe la morte, altrimenti? Quella fisica, quella spirituale. Stessa funzione, su piani diversi.
Ho ancora il canto nel cuore. Di Dio sei il Paradiso. Ave. Maria.
Maria Paradiso di Dio nel suo morire a sé, e lasciare Iddio vivere. Posso esserlo io, chiunque. Il Paradiso di Dio.
È vero, perché quando incontro qualcuno che amo, e che ama e sta felice, io ne gioisco ancor più. Figurarsi il Creatore. Come pure è vero il contrario. Il dolore che vivi dell’infelicità di chi non ama, sta male, lontano.
Anni fa interrogai un anziano filosofo, grande esperto di divino, sul dolore di Dio. Mi suonava strano, quasi contraddizione. Lui mi confermò. Dio soffre, soffre nell’Abbandono del Figlio, soffre del dolore di ogni Suo figlio. Come il Padre del figliol prodigo: sale sulla torre tutti i giorni, nell’attesa del ritorno. Scruta l’orizzonte, vigile ad ogni movimento dell’orizzonte: sarà lui che finalmente torna?
“Ma dall’esilio ci libererà
l’ostinato mio amore.”
Trovo questo tardo Ungaretti perfetto nel calare in terra, tra un uomo e una donna, l’amore del Padre verso il figlio lontano.
L’esilio soprattutto, è vero: come non pensare all’esilio dal Paradiso terrestre? Uomo e donna uniti nel matrimonio cristiano, si diviene carne dell’altro. Quel plurale "ci salverà" dice tutto in breve: la salvezza è insieme, il disegno è unico! E si vive davvero un esilio se l’altro sta altrove. Se un pezzo di te è lontano, come in un tumore dell’anima, il suo male è anche il tuo, il suo dolore seppur ignoto ai più è tuo.
Poi stai nel presente, rispetti la sua libertà, ami altro e altri, sei tutto a tutti. E pur solo, monco, col disegno deturpato, sei comunque un risorto, se vivi in Dio.
(foto mia, Umbria 2009)
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