È il quinto inverno, qui nel mio eremo.
È tornato il freddo, anche quest’anno. E devo prendere atto che il mio corpo non è entusiasta. Sarà la stanchezza, sarà che invecchio. Lo sto soffrendo più del passato.
Di recente, momenti difficili. Anche la solitudine fa la sua parte, la vita non è sempre uguale.
Una sera, in fila alla cassa del discount, accanto a me un uomo, uno qualsiasi. È stato un attimo, un lampo di luce. Mi sono sentito patetico, accanto a lui. Un uomo che veniva da lontano, un uomo che ho presunto avesse storie di dolore molto più grandi della mia. Un uomo che vedevo sereno, superiore, nella sua dignità piena. Forse erano solo i miei occhi. Ma è stato un rendermi conto della mia pochezza, del ridicolo del mio dolore. A volte mi lamento con Dio, mi appare impossibile vivere la mia storia. E buona parte dell’umanità vive in dolori ben più grandi dei miei.
Chi non ha famiglia, chi non ha lavoro, chi figli, chi affetti, chi salute, chi casa. Chi vive nelle guerre, chi nelle devastazioni. Chi nella miseria assoluta. Chi nella solitudine disperante.
E soprattutto, il dolore più grande: chi vive, sopravvive, senza Dio. E senza poter dare nome al dolore.
Io ho tante cose, seppur fortunatamente in misura ridotta (mi vergognerei, altrimenti). Vivo nell’emisfero nord del mondo, ho comunque un lavoro, una casa, un’automobile. Una famiglia bella, anche se forse non appare. La salute: ho tanti acciacchi, ma non va proprio male.
Un’amica, abbandonata dal marito, con figli minorenni. Venuta dall’est in Italia per dare un futuro ai figli. Una volta mi ha rimproverato, paragonando le nostre vite: la mia "agiatezza" e il suo pochissimo.
Un’altra amica, del sud del mondo, innamorata dell’Italia, mi pose un quesito irrisolvibile: “Perché sono nata in Brasile, e non qui in Italia, come voi?”
Un caro amico che vive una situazione familiare davvero difficile, col figlio che necessita attenzioni continue e pazienti, mi narra del suo dolore esausto, della sua fatica ormai senza speranza, e mi lascia muto.
Cosa dire?
Certo, pensavo, il mio dolore non è poco. La separazione, “questa” separazione, con la conseguente solitudine, è un dolore grande.
Ma poi mi pareva che non è nemmeno tanto, il mio dolore: tanti sulla terra ne hanno ben di più.
Ma allora il mio dolore com’è? Né poco, né tanto. Ma allora è giusto!?
Deve essere così: Dio sa e dosa, a ognuno il dolore “giusto”.
Ma come non chiedermi, allora, di quanti vivono situazioni terribili e nemmeno immaginabili: ma chi sono davanti a Dio, chi sono? Ma che forza hanno? Questa domanda spaventa.
Sempre più spesso mi accade di empatizzare, in maniera atipica forse, con persone che incontro, mi chiedo che dolore avranno, cosa le erode dentro. Qualcuno persino mi rimprovera che cerco sempre di andare oltre, di capire cause e problemi. Ma davvero credo che si debba sempre mettersi nei panni altrui, usare la sola misericordia come esclusivo metodo di analisi. Per comprendere, non necessariamente per giustificare.
E questa pratica, continua, oltre te e la tua umanità, ti porta poi a penetrare, a dare un nome al dolore, al dolore di ognuno sulla terra.
Se sai cosa è il grido del Golgota, e ci sei passato dentro, puoi capire: il nome del dolore universale è quello, sempre, da millenni.
Partecipi al dolore e collabori alla redenzione, per quanto puoi.
E tutto cambia dimensione, e tutto si spiega, e nasce e rinasce la luce che illumina qualunque oscurità.
Mi rendo conto che sono partito ragionando di dolore, son giunto alla rinascita perpetua. Ma questo è: legati intimamente e misteriosamente.
Ed ecco che già, di nuovo, arriva Natale: la nascita!
Voglio augurare a voi tutti un Natale vero, di rinascita perpetua, appunto.
Anche condividendo questo racconto ( --> Christmas) che nasce da una mia esperienza reale vissuta a Roma, nei pressi della stazione Tiburtina, alla vigilia del Natale 1997, praticamente un anno dopo la partenza di mia madre.
Rileggendolo oggi mi accorgo che, oltre le forme forse acerbe, ci si può leggere molto di me allora e dedurne un pò come vivevo dentro. Una esperienza romanzata, col solo epilogo di fantasia.
(Una versione ridotta ne è stata pubblicata su Città Nuova 24 del 2003.)
(foto mia, Roma, anni '70)
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