Tempo fa, una banale discussione che diviene accesa. C’era chi asseriva che i vecchi son tutti cattivi. Che l’avvicinarsi della morte li rende astiosi con chi rimane. Che non accettano di morire, giustamente, e sono depressi: la natura umana è cattiva, e qui si rivela appieno.
C’era di tutto. Ho dovuto e voluto dire la mia, con forza, anche. Da quel che ho visto nella vita, intanto ho imparato che non esistono i cattivi, come non esistono i buoni, come categorie assolute. Esistono “persone” che attimo dopo attimo scelgono di fare il bene, di fare il male. Con tutto quel che ne consegue.
Ma poi, specie nel caso degli anziani, va considerato che col passar degli anni magari si perdono le inibizioni, la buona educazione, il rispetto umano. Io direi che si diviene sé stessi, senza più gli abiti indossati per una vita. Come direbbe Totò: non si ha più la divisa, si diviene liberi.
Ecco, questa nuova libertà porta alla luce la vera natura dell’umano. Si vede come si è nel fondo. E si trovano sì persone esacerbate, ma quante invece sono serene, dolci, premurose?
D’altronde la sola certezza inopinabile della vita pare essere la morte, e certo col passar degli anni le probabilità statistiche aumentano. Ho l’impressione che si muoia come si è vissuto. Chi ha una coscienza comunque serena affronterà la fine ben diversamente da chi sta turbato, infelice, preso dalle cose della terra.
Nel giro di pochissimi giorni mi accadono eventi che paiono messi lì proprio in fila.
Una signora anziana, molto ricca, che conosco da anni, a messa in un giorno speciale. È piena di ori e sta cupa, avvizzita, pare in un dolore muto e senza speranza. Naturalmente non so cosa ha nel cuore, cosa vive con Dio. Non posso né voglio giudicare, ma l’impressione è di una persona infelice, e inevitabilmente mi viene da pensare alla cruna dell'ago, alla ricchezza che non genera felicità nemmeno qui in terra.
Pochi giorni dopo, incontro la minore di due anziane sorelle che conosco superficialmente. Lei mi saluta chiamandomi per nome, e io non ricordo il suo. Poi le chiedo della sorella, che so stare poco bene. Mi narra che le funziona solo una metà del corpo, a letto immobilizzata necessita di cure continue. La sento positiva, una donna che si prodiga e non lamenta del suo impegno. Mi chiedo se avrà qualcuna accanto, quando sarà la sua ora. Nel salutarmi sorride e mi lascia stupefatto: “Bisogna abbracciare… quel che viene!”. Non è rassegnata, non parla di accettare: dice abbracciare!
Pare detto da una mistica cristiana, e non da una donna del popolo. Ma deve essere la coscienza cristiana che magari inconsapevole vive nel fondo dei cuori della gente semplice.
Poi, ancora. Un amico mi racconta del suo rapporto con la suocera, pure lei molto anziana, con Alzheimer. È come una bambina. La porta fuori in macchina per distrarla, la fa passeggiare, la sera vedono la TV insieme, vicini, sul divano. È quasi incredulo, perché si rende conto che sta amando gratis, senza possibilità alcuna di tornaconto. Dico che lui si ritroverà tutto questo amore gratuito. Perché è questo che accresce l’uomo, così come il contrario lo diminuisce. Mi pare di cogliere qualcosa di lucido, brillante, nei suoi occhi.
Penso a mia madre, Anna, partita anzitempo ché doveva raggiungere papà.
In fase terminale di tumore, sotto morfina. Nascosta dalle coperte, le esce una specie di ruttino. La sento dire, ed è l’ultima sua parola che ricorderò: “Scusate!”, rivolta ai presenti.
Così è passata sulla terra, in punta di piedi, amando come ne è stata in grado.
Il Cielo di Dio è pieno di creature così, credo.
(foto mia, Umbria 2009)
domenica 23 ottobre 2011
martedì 11 ottobre 2011
Let it be
Mi capita di sentire storie di dolore che lasciano senza fiato. Dolore in famiglia, amiche e amici separati con problemi immani di gestione dei figli e della propria vita. Pianti senza più lacrime oramai.
E la mia prima reazione, nella condivisione attiva del dolore, è sempre quella: ci entrerei dentro, nel fare qualcosa di risolutivo, che riporti pace, serenità. Tenterei l’impossibile.
Mi sembra sia l’amore vero, concreto, con cui posso amare chi mi passa accanto in questo scorcio di eternità. Sono un interventista, il mio carattere.
E qualche anno fa venni calorosamente invitato al contrario: “Tu devi imparare a stare fermo, a lasciare che sia, a non fare…”.
Tenti di cambiare il corso degli avvenimenti, modificare la storia. E si possono fare danni pure in buona fede.
Penso a Pietro quando sguaina la spada e reagisce, in maniera inconsulta. Fa danni, va oltre. Ma reagisce: la sua natura impetuosa.
Per anni e anni ho lottato come ho potuto contro questa mia separazione che inesorabile avanzava, era una cosa assolutamente inaccettabile, la vedevo un errore, follia.
Un anziano amico mi rimbrottò addirittura: “E cosa sarà mai una separazione, con quanto accade nella vita!” Ma per me era il peggio del peggio. La mia vita che moriva.
Stare fermo, non fare: mica facile! Eppure qualcosa credo di aver imparato. Quel “Lasciare che sia!” mi ha lavorato. Ho scoperto realtà che teoricamente sapevo, ma non vivevo, non immaginavo tali. Molto distanti dal mio istinto, agli antipodi.
Ho imparato ad essere il contrario di me.
In questi anni di dolore, di situazioni al limite, in alcuni momenti estremamente difficili è parso che una presenza vicina quasi sottovoce, impercettibile, mi sussurrasse “Let it be!”: lascia che sia!
Let it be. 1969, ultima canzone dei Beatles. La storia (Wikipedia) narra che Paul McCartney abbia perso la madre Mary da bambino, e gli sia apparsa in sogno, raccomandandogli: lascia che sia, let it be… Un testo incredibilmente bello e altrimenti leggibile: quel “Mother Mary” a me e forse a tanti sembrava altro.
(Per chi volesse conoscerla, consiglio una versione splendida su youtube.com: live del 2003, concerto a Mosca sulla piazza Rossa - chiave ricerca: Let it be Moscow).
Non ribellarti, non combattere come tuo solito. Lascia che sia. Come Maria sul Golgota. Non ha urlato, non si è messa di traverso coi carnefici, non ha maledetto. Ha lasciato che accadesse. Ma Lei tanto poteva solo in virtù del suo stare in Dio, in altra dimensione.
A volte pare non esista via d’uscita, il cuore stritolato.
Mi son trovato e mi trovo ancor oggi a permettere, in me e col Padre, che sia.
Let it be, continua sovente a sussurrarmi quella voce.
Mettere la propria esistenza, ogni volta, di nuovo, nelle mani di chi sa e vede e provvede. Le sole che possono. Non le mie mani, che poco possono pur avendo grandi velleità.
Maria. Ottobre, il suo mese.
Vivere la sua leggerezza. Posarsi nel vento e lasciarsi portare…
(foto mia, settembre 2006, Umbria)
E la mia prima reazione, nella condivisione attiva del dolore, è sempre quella: ci entrerei dentro, nel fare qualcosa di risolutivo, che riporti pace, serenità. Tenterei l’impossibile.
Mi sembra sia l’amore vero, concreto, con cui posso amare chi mi passa accanto in questo scorcio di eternità. Sono un interventista, il mio carattere.
E qualche anno fa venni calorosamente invitato al contrario: “Tu devi imparare a stare fermo, a lasciare che sia, a non fare…”.
Tenti di cambiare il corso degli avvenimenti, modificare la storia. E si possono fare danni pure in buona fede.
Penso a Pietro quando sguaina la spada e reagisce, in maniera inconsulta. Fa danni, va oltre. Ma reagisce: la sua natura impetuosa.
Per anni e anni ho lottato come ho potuto contro questa mia separazione che inesorabile avanzava, era una cosa assolutamente inaccettabile, la vedevo un errore, follia.
Un anziano amico mi rimbrottò addirittura: “E cosa sarà mai una separazione, con quanto accade nella vita!” Ma per me era il peggio del peggio. La mia vita che moriva.
Stare fermo, non fare: mica facile! Eppure qualcosa credo di aver imparato. Quel “Lasciare che sia!” mi ha lavorato. Ho scoperto realtà che teoricamente sapevo, ma non vivevo, non immaginavo tali. Molto distanti dal mio istinto, agli antipodi.
Ho imparato ad essere il contrario di me.
In questi anni di dolore, di situazioni al limite, in alcuni momenti estremamente difficili è parso che una presenza vicina quasi sottovoce, impercettibile, mi sussurrasse “Let it be!”: lascia che sia!
Let it be. 1969, ultima canzone dei Beatles. La storia (Wikipedia) narra che Paul McCartney abbia perso la madre Mary da bambino, e gli sia apparsa in sogno, raccomandandogli: lascia che sia, let it be… Un testo incredibilmente bello e altrimenti leggibile: quel “Mother Mary” a me e forse a tanti sembrava altro.
(Per chi volesse conoscerla, consiglio una versione splendida su youtube.com: live del 2003, concerto a Mosca sulla piazza Rossa - chiave ricerca: Let it be Moscow).
Non ribellarti, non combattere come tuo solito. Lascia che sia. Come Maria sul Golgota. Non ha urlato, non si è messa di traverso coi carnefici, non ha maledetto. Ha lasciato che accadesse. Ma Lei tanto poteva solo in virtù del suo stare in Dio, in altra dimensione.
A volte pare non esista via d’uscita, il cuore stritolato.
Mi son trovato e mi trovo ancor oggi a permettere, in me e col Padre, che sia.
Let it be, continua sovente a sussurrarmi quella voce.
Mettere la propria esistenza, ogni volta, di nuovo, nelle mani di chi sa e vede e provvede. Le sole che possono. Non le mie mani, che poco possono pur avendo grandi velleità.
Maria. Ottobre, il suo mese.
Vivere la sua leggerezza. Posarsi nel vento e lasciarsi portare…
(foto mia, settembre 2006, Umbria)
domenica 2 ottobre 2011
Di Dio, il Paradiso
Sere fa mi ha chiamato un vecchio caro amico, allarmato: “Oh, è un mese che non pubblichi: tutto bene?”
Tutto bene, benissimo. Esco da un periodo intenso, ove era arduo trovare concentrazione per scrivere qui. Un periodo in cui ho terminato una lettera che da tempo avevo in animo, e un’altra ne ho avviata. Importanti entrambe, pur completamente differenti. E poi c’è stato il matrimonio di mia figlia! Un avvenimento che posso definire molto più bello dell’immaginabile. Loro belli e bravi, come sempre. Una cerimonia molto partecipata, grazie anche al celebrante. I canti che mi commuovono, specie quando si intona “Di Dio sei il Paradiso, Ave Maria”. Una meraviglia. Come pure tutti e tutto.
Ho pianto tanto, certo. Sempre mi accade quando sento nelle mie fibre il soprannaturale fine. Quando sento che Iddio è lì, presente, palpabile. Forse è la mia sensibilità esagerata, magari un poco folle.
A sera, al termine di tutto, son rientrato a casa, nella mia solitudine solita, tanto stanco che zoppicavo, con crampi acuti alle gambe e ai piedi. E non potevo non ringraziare il Padre per la giornata: tutto andato più che bene, la mia sposa sempre più bella. E il mio cuore sempre più eroso, evidente.
Il giorno dopo, ventesimo anniversario della partenza di papà per l’altra vita: ne ho già scritto. All’epoca, in un buio pressoché assoluto, mi fu di luce un amico “Ci sono momenti in cui il Cielo e la terra si toccano”. Si toccano quando si muore, e si passa in altra dimensione, in Cielo.
Mi rendo conto che questa operazione la compio tutti i giorni, anche, col mio vivere. Quando muoio e passo in altra dimensione. Muoio a me stesso e all’istante risorgo, passo a vivere altro. A cosa servirebbe la morte, altrimenti? Quella fisica, quella spirituale. Stessa funzione, su piani diversi.
Ho ancora il canto nel cuore. Di Dio sei il Paradiso. Ave. Maria.
Maria Paradiso di Dio nel suo morire a sé, e lasciare Iddio vivere. Posso esserlo io, chiunque. Il Paradiso di Dio.
È vero, perché quando incontro qualcuno che amo, e che ama e sta felice, io ne gioisco ancor più. Figurarsi il Creatore. Come pure è vero il contrario. Il dolore che vivi dell’infelicità di chi non ama, sta male, lontano.
Anni fa interrogai un anziano filosofo, grande esperto di divino, sul dolore di Dio. Mi suonava strano, quasi contraddizione. Lui mi confermò. Dio soffre, soffre nell’Abbandono del Figlio, soffre del dolore di ogni Suo figlio. Come il Padre del figliol prodigo: sale sulla torre tutti i giorni, nell’attesa del ritorno. Scruta l’orizzonte, vigile ad ogni movimento dell’orizzonte: sarà lui che finalmente torna?
“Ma dall’esilio ci libererà
l’ostinato mio amore.”
Trovo questo tardo Ungaretti perfetto nel calare in terra, tra un uomo e una donna, l’amore del Padre verso il figlio lontano.
L’esilio soprattutto, è vero: come non pensare all’esilio dal Paradiso terrestre? Uomo e donna uniti nel matrimonio cristiano, si diviene carne dell’altro. Quel plurale "ci salverà" dice tutto in breve: la salvezza è insieme, il disegno è unico! E si vive davvero un esilio se l’altro sta altrove. Se un pezzo di te è lontano, come in un tumore dell’anima, il suo male è anche il tuo, il suo dolore seppur ignoto ai più è tuo.
Poi stai nel presente, rispetti la sua libertà, ami altro e altri, sei tutto a tutti. E pur solo, monco, col disegno deturpato, sei comunque un risorto, se vivi in Dio.
(foto mia, Umbria 2009)
Tutto bene, benissimo. Esco da un periodo intenso, ove era arduo trovare concentrazione per scrivere qui. Un periodo in cui ho terminato una lettera che da tempo avevo in animo, e un’altra ne ho avviata. Importanti entrambe, pur completamente differenti. E poi c’è stato il matrimonio di mia figlia! Un avvenimento che posso definire molto più bello dell’immaginabile. Loro belli e bravi, come sempre. Una cerimonia molto partecipata, grazie anche al celebrante. I canti che mi commuovono, specie quando si intona “Di Dio sei il Paradiso, Ave Maria”. Una meraviglia. Come pure tutti e tutto.
Ho pianto tanto, certo. Sempre mi accade quando sento nelle mie fibre il soprannaturale fine. Quando sento che Iddio è lì, presente, palpabile. Forse è la mia sensibilità esagerata, magari un poco folle.
A sera, al termine di tutto, son rientrato a casa, nella mia solitudine solita, tanto stanco che zoppicavo, con crampi acuti alle gambe e ai piedi. E non potevo non ringraziare il Padre per la giornata: tutto andato più che bene, la mia sposa sempre più bella. E il mio cuore sempre più eroso, evidente.
Il giorno dopo, ventesimo anniversario della partenza di papà per l’altra vita: ne ho già scritto. All’epoca, in un buio pressoché assoluto, mi fu di luce un amico “Ci sono momenti in cui il Cielo e la terra si toccano”. Si toccano quando si muore, e si passa in altra dimensione, in Cielo.
Mi rendo conto che questa operazione la compio tutti i giorni, anche, col mio vivere. Quando muoio e passo in altra dimensione. Muoio a me stesso e all’istante risorgo, passo a vivere altro. A cosa servirebbe la morte, altrimenti? Quella fisica, quella spirituale. Stessa funzione, su piani diversi.
Ho ancora il canto nel cuore. Di Dio sei il Paradiso. Ave. Maria.
Maria Paradiso di Dio nel suo morire a sé, e lasciare Iddio vivere. Posso esserlo io, chiunque. Il Paradiso di Dio.
È vero, perché quando incontro qualcuno che amo, e che ama e sta felice, io ne gioisco ancor più. Figurarsi il Creatore. Come pure è vero il contrario. Il dolore che vivi dell’infelicità di chi non ama, sta male, lontano.
Anni fa interrogai un anziano filosofo, grande esperto di divino, sul dolore di Dio. Mi suonava strano, quasi contraddizione. Lui mi confermò. Dio soffre, soffre nell’Abbandono del Figlio, soffre del dolore di ogni Suo figlio. Come il Padre del figliol prodigo: sale sulla torre tutti i giorni, nell’attesa del ritorno. Scruta l’orizzonte, vigile ad ogni movimento dell’orizzonte: sarà lui che finalmente torna?
“Ma dall’esilio ci libererà
l’ostinato mio amore.”
Trovo questo tardo Ungaretti perfetto nel calare in terra, tra un uomo e una donna, l’amore del Padre verso il figlio lontano.
L’esilio soprattutto, è vero: come non pensare all’esilio dal Paradiso terrestre? Uomo e donna uniti nel matrimonio cristiano, si diviene carne dell’altro. Quel plurale "ci salverà" dice tutto in breve: la salvezza è insieme, il disegno è unico! E si vive davvero un esilio se l’altro sta altrove. Se un pezzo di te è lontano, come in un tumore dell’anima, il suo male è anche il tuo, il suo dolore seppur ignoto ai più è tuo.
Poi stai nel presente, rispetti la sua libertà, ami altro e altri, sei tutto a tutti. E pur solo, monco, col disegno deturpato, sei comunque un risorto, se vivi in Dio.
(foto mia, Umbria 2009)
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