Oggi è una data importante per me e qualcun altro sulla terra. Cento anni fa nasceva Sabatino, il mio padre terreno. Partito oramai da venti anni, l’ho visto lottare energicamente per la vita, infine sopraffatto da una serie di eventi negativi.
Del corpo dovrebbe esserne rimasto nulla, anche se ho qualche dubbio.
Era troppo bello, col viso stranamente imprevedibilmente felice, lì sul letto di morte, nell’obitorio dell’ospedale dell’Aquila. Sono stato con lui in rianimazione, negli ultimi giorni, tutto il poco tempo consentito. Quando le macchine hanno cominciato a suonare, ero lì che gli stringevo la mano. Come fossi ad accompagnarlo nel trasbordo da una esistenza all’altra. Almeno questo.
Primogenito, sono nato che lui aveva già 43 anni. Siamo sempre stati due mondi lontani, pur volendoci bene. E la nostra comunicazione ne ha risentito, specie negli anni della crescita: lui rigido nel suo mondo antico, io pieno figlio dell’epoca della destrutturazione.
Ha messo tre volte la divisa da soldato, di cui due per fare guerre in terre lontane.
Ha lasciato il mondo migliore di come lo aveva trovato, cosa che alla mia generazione pare assolutamente non possibile.
Poche chiacchiere, zero smancerie e tanta concretezza, solo divenuto nonno l’ho visto intenerirsi. E coi nipoti pareva trasformarsi: forse smetteva la veste di genitore e finalmente liberava la sua affettività.
È stato uomo vero.
Conosceva bene il sacrificio e il dolore, anche se forse non arrivava a dargli un nome.
Nel suo portafogli ho poi trovato un’immagine di Maria madre.
Sulla tomba abbiamo scritto, dagli Atti: “Soltanto per mezzo di molte tribolazioni si può entrare nel regno dei cieli”.
All’esame finale penso proprio sia andato bene. Era preparato.
In un sabato pomeriggio di inizio autunno, gelido e limpido come solo i monti d’Abruzzo nella loro tramontana sanno plasmare, lo abbiamo accompagnato nell’ultimo finale viaggio. Quando siamo arrivati col corteo funebre sono rimasto impressionato dal mare di gente che lo attendeva. Ho pensato ad alta voce: “Ma tutta questa gente a festeggiare... papà sarà contento!” E mia madre: “Questo è un funerale, non una festa”. Vero: infatti bisognerebbe rendere omaggio ai vivi, non attenderne la morte.
Il cuore mi è quasi scoppiato alla sua partenza, anche se ci ero preparato da sempre. Sai che tuo padre partirà prima di te, specie se è anziano. Ma scacci sempre l’idea. Poi tocca a te, nella scala della vita. Sarai pronto? Intanto hai una famiglia cui badare, tre figli piccoli, la tua sposa, tua madre che piange giorno e notte senza tregua. E che poco dopo partirà a raggiungerlo.
Oggi, in questo assaggio di strana primavera, qui nella campagna intorno casa, vivo dentro un’esplosione di verde. I miei due grandi alberi di noce son tornati vivi e belli, dopo la spoliazione annua: il ciclo della vita si perpetua, la natura risorge dopo la morte.
Come la Pasqua nei giorni scorsi, che ogni anno torna a ricordare che la Resurrezione è un fatto terreno, per tutti, di adesso e non di sola vita futura.
(foto mia, Fossacesia 1989)
Caro Paolo, ti leggo e ogni volta mi faccio le domande sulla vita che ti fai tu e commento nell'anima le tue risposte. Stasera trovo il coraggio di ringraziarti per aver dato parole a ciò che ho provato alla partenza di mio padre. Un appuntamento epocale per la nostra umanità. Così per tutti, che riprendono contatti profondi con il senso della vita. L'ultima, ma forse no, grande lezione dei nostri padri. Comunque grandi. Un abbraccio.Annamaria
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