Sono andato prendere i giovani leoni all’asilo: è per me sempre una meraviglia. E pure per loro, mi sembra. Poi pranziamo insieme e quando vanno a fare il sonnellino pomeridiano vado al supermercato. Sono le due del pomeriggio, siamo veramente in pochi. Mi sento osservato, e credo sia per il mio abito: so di stare vestito un po' “anomalo” e sarà questo, probabilmente.
Mi viene da ridere perché con i nipotini abbiamo appena scherzato sul mio essere vecchietto: sto con giacca e cravatta ed Enrichetto, che non ha ancora 4 anni, mi ha chiesto la cravatta: se posso regalargli la mia cravatta! E’ una cravatta “fuori moda”, colorata, un liberty sulle tonalità del rosso. Certo, gli dico che ovviamente lascerò le mie cravatte a loro quando morirò… ma anche prima posso regalarle, appena loro potranno utilizzarle.
Capita che parlo della mia partenza, prima o poi. Loro chiedono: “E pecchè mori?”. Tutto finisce, prima o poi. Solo Dio resta. Questa la sola spiegazione, almeno per ora. Ho detto anche che allora sarò sempre con loro: ma ne riparleremo, spero.
Ultimamente sto rimettendo le giacche che non usavo da qualche anno, e ci stanno buoni motivi.
Intanto, mi piace. Poi è accaduto che sono calato abbastanza di peso, quanto basta per ritrovare la mia forma e mi sto godendo le cose che non potevo più indossare: come le camicie che non mi si chiudevano più e le giacche in cui non entravo… e di conseguenza le cravatte di cui ho una discreta collezione che risale alla notte dei (miei) tempi. Naturalmente sono tutte cravatte desuete, non allineate alla moda di oggi, nere, atone o simil-Marinella e ne sono molto contento.
Nel vestire, come in tutto il resto, ritengo sia normale che venga fuori quello che sono: io, e non quello che pensa l'ambiente, la moda, il mondo circostante.
C'è un antefatto correlato, anzi due.
Nove anni fa andai a Santiago de Compostela, solo, ovviamente. Ne ho scritto e ne ho parlato tanto (e continuo ad augurare a tutti di partire per il Cammino, come pellegrinaggio vero di sudore e sangue, e non come gita con il pulmino al seguito, che è tutt'altro).
All’epoca andavo pure in palestra e la domenica uscivo col CAI: pur se mai troppo impegnativo, utile per tenersi in forma.
Poi in questi ultimi anni tutto ciò è passato in secondo piano, mi è divenuto difficile. Ed ero convinto che da solo mai avrei ripreso a camminare. Che in solitudine o in buona compagnia cambia parecchio: da solo mi era molto doloroso e per anni il mio corpo rifiutava il camminare.
Invece di recente, era fine maggio, ho ripreso a camminare da un giorno all’altro e non ricordo un momento particolare di decisione, non so nemmeno io come e perché. Così, una cosa naturale.
Complici un paio di leggerissimi bastoncini di alluminio e carbonio da nordic walking, che sono stati di stimolo e aiuto concreto. Una cosa buona.
Ho rivisto Forrest Gump. Come sempre avvincente, lui dice “E io corevo corevo”… e io camino, camino! Contemporaneamente al camminare è stato automatico riprendere la dieta personalizzata di anni fa: le due cose sono andate in parallelo una aiutando l'altra, e d'altronde è sempre così.
Oggi al supermercato mi son sentito demodé e non mi ha sconvolto.
Mai ho cercato di essere alla moda, ma anzi sempre in un caparbio andare controcorrente sin dai miei quattordici anni, o giù di lì.
Anche se per la verità nei miei venti anni di deserto c’è stato un tentativo di adeguamento alle correnti, agli usi e costumi dei maschi italici: ne sono uscito con le ossa rotte, perché lì non vi era affatto felicità, anzi; e poi la vita è ben altro. Ma dovevo passarci per ritrovarmelo bene nel sangue, evidente.
Mi accorgo che questo essere demodé negli abiti lo è anche nel mio vivere, anzi forse ancor più.
Perché oggi nemmeno più nei convegni ecclesiali si ragiona, sì dà spazio, si mette in luce chi vive dentro al suo matrimonio seppur da solo, chi continua a credere al sacramento come la cosa più importante della sua vita, chi continua a mantenere vive le promesse fatte davanti a Dio e davanti agli uomini.
D'altronde già una decina di anni fa venni amorevolmente rimbrottato da una persona cara: “E basta con questi luoghi comuni (del matrimonio per sempre)!” Dovetti far presente che altri erano oramai i luoghi comuni, la massificazione imperante e progressiva. Ed io ero anomalo già all'epoca.
Questo essere demodé, che è poi vivere controcorrente, mi piace troppo: mi sa proprio che questo deve essere il Vangelo, che mai è stato alla moda, che sempre è stato scomodo, che sempre ha fatto gridare scandalo, e ancor più lo farà nei tempi a venire, nei tempi bui prossimi venturi.
Il mio amico Angelo, artista nel cuore e nel vivere, nel trarre consuntivi spesso ripete: “Io sto troppo indietro, o forse troppo avanti. Di sicuro non sto allineato”.
Ecco: proprio come me.
(foto mia, Umbria 2014)
sabato 19 novembre 2016
lunedì 7 novembre 2016
E io pago?
Di recente su youtube (grazie, come sempre!) ho visto un film di Totò che mi mancava: 47 Morto che parla. E lui è l’avaro barone Peletti che lamenta le sue spese, con il tormentone, ancora famoso dopo quasi settantanni: “E io pago!” (tra l'altro: memorabile la scena del macellaio).
E poi, del tutto casualmente, sempre su youtube, mi sono imbattuto in conversazioni intorno alle cose più importanti, ad opera di uomini di Dio. Uno di questi, padre Serafino Tognetti, ragiona su un pezzo di Vangelo che conosco bene ma scopro nuovissimo dalle sue parole.
Il buon samaritano, che dice: "Pago io!" qualunque cosa necessiti a quest’uomo, massacrato dai briganti, a me sinora ignoto: pago io, no problem! Incredibile, no? E chi glielo fa fare? Si fa fatica a pagare per le persone più care… e costui, uno straniero, paga per uno sconosciuto?
Mi viene da pensare, inevitabile, a quanti mi rimbrottano, seppur con affetto (ultima una mia cugina): “Paolo, smettila di vivere di lei! Basta, oramai, no?” Mi veniva da ridere: ma pago io! E se non io, chi paga per lei? Ma se non è questo il matrimonio (specie cristiano), cosa è mai? Un contratto che si disdice? Un rapporto a termine: l’amore è eterno finché dura?
E attenzione che il Vangelo parla di due persone che non si conoscevano… e il samaritano si prende carico dei bisogni altrui… questo è l’amore sommo, quello di Dio: ripasserò di qui e salderò il conto, pago tutto io, purché si riprenda, pur che è uno sconosciuto!
Certo, intorno a me accadono anche cose esattamente opposte: coniugi che si massacrano a vicenda a suon di cause in tribunale (e avvocati impinguiti).
Anzi, qualcuno parla di ex-coniugi… ma dal punto di vista di Dio, che onestamente credo sia il solo che mi interessa, se voglio essere cristiano, se il matrimonio non è nullo non si può dire: ex.
E pure il dire “famiglie ferite”: quante ce ne sono che paiono unite e dentro sono un massacro?
Tutte le famiglie sono ferite, e tutte sono redente:
dipende da chi paga, se paga;
dipende da chi si impegna a viverla sino in fondo e chi si impegna alla sua morte, piuttosto;
dipende dal sangue proprio versato oppure dal pretenderlo dal coniuge che si caccia;
dipende da chi si porta sulle spalle la responsabilità dell’altro - promessa al momento delle nozze e chi invece si volta indietro...
Che pena il barone Peletti, così magistralmente dipinto e così infelice.
E io pago? Certo, pago io! Pago tutto io. E sono felice di pagare, se questo è l’amore.
D'altronde, se questo nostro non fosse il Dio dell’impossibile, non sarebbe certo Dio.
(foto mia, Umbria 2015)
E poi, del tutto casualmente, sempre su youtube, mi sono imbattuto in conversazioni intorno alle cose più importanti, ad opera di uomini di Dio. Uno di questi, padre Serafino Tognetti, ragiona su un pezzo di Vangelo che conosco bene ma scopro nuovissimo dalle sue parole.
Il buon samaritano, che dice: "Pago io!" qualunque cosa necessiti a quest’uomo, massacrato dai briganti, a me sinora ignoto: pago io, no problem! Incredibile, no? E chi glielo fa fare? Si fa fatica a pagare per le persone più care… e costui, uno straniero, paga per uno sconosciuto?
Mi viene da pensare, inevitabile, a quanti mi rimbrottano, seppur con affetto (ultima una mia cugina): “Paolo, smettila di vivere di lei! Basta, oramai, no?” Mi veniva da ridere: ma pago io! E se non io, chi paga per lei? Ma se non è questo il matrimonio (specie cristiano), cosa è mai? Un contratto che si disdice? Un rapporto a termine: l’amore è eterno finché dura?
E attenzione che il Vangelo parla di due persone che non si conoscevano… e il samaritano si prende carico dei bisogni altrui… questo è l’amore sommo, quello di Dio: ripasserò di qui e salderò il conto, pago tutto io, purché si riprenda, pur che è uno sconosciuto!
Certo, intorno a me accadono anche cose esattamente opposte: coniugi che si massacrano a vicenda a suon di cause in tribunale (e avvocati impinguiti).
Anzi, qualcuno parla di ex-coniugi… ma dal punto di vista di Dio, che onestamente credo sia il solo che mi interessa, se voglio essere cristiano, se il matrimonio non è nullo non si può dire: ex.
E pure il dire “famiglie ferite”: quante ce ne sono che paiono unite e dentro sono un massacro?
Tutte le famiglie sono ferite, e tutte sono redente:
dipende da chi paga, se paga;
dipende da chi si impegna a viverla sino in fondo e chi si impegna alla sua morte, piuttosto;
dipende dal sangue proprio versato oppure dal pretenderlo dal coniuge che si caccia;
dipende da chi si porta sulle spalle la responsabilità dell’altro - promessa al momento delle nozze e chi invece si volta indietro...
Che pena il barone Peletti, così magistralmente dipinto e così infelice.
E io pago? Certo, pago io! Pago tutto io. E sono felice di pagare, se questo è l’amore.
D'altronde, se questo nostro non fosse il Dio dell’impossibile, non sarebbe certo Dio.
(foto mia, Umbria 2015)
giovedì 20 ottobre 2016
Tre donne. Anzi una.
A questo punto del vivere posso ben dire che ho vissuto. Ho vissuto nel bene, ho vissuto nel male e da tutto ho imparato. E quello che oggi sono è figlio del bene e figlio del male. E tutto concorre al Bene, oramai lo so. Dipende solo da me, ora.
Posso e devo dire dell’importanza delle donne nella mia vita ma in special modo di tre di loro: sì, le tre donne della mia vita.
La prima si chiamava Anna: mi ha dato la vita, questa vita terranea. Mi ha dato alla luce, mi ha dato il suo latte. Per anni è stata angosciata quando stavo male - di un male che non si capiva - e spesso diceva, come tra sé: “Figlio mio, sei nato libero e ora perché devi stare così?”
La seconda si chiamava Chiara, era nata Silvia. Mi ha dato un'altra vita, avevo sedici anni. La vita, quella che guarda all’Eterno, e il Cielo si è dischiuso: mi ha donato la vita soprannaturale, mi ha aperto gli spazi oltre l'umano. Mi ha dato occhi per vedere e anche un cuore nuovo per capire, oltre il vedere.
La terza donna non è nominabile perché ha il nome del Cielo, e quindi ha tutti i nomi della terra. La creatura cui sono per sempre legato: la mia sposa, la più bella, l'unica, la sola del mio cuore. Colei a cui tutto devo: tutto quello che sono e quello che non sono - perché anche questo conta, anzi più.
Di tante mi sono innamorato, e ancora mi innamorerò. Ma solo uno è l’amore, anzi l’Amore. Ché troppo spesso non si distingue più tra due realtà completamente diverse, anche se spesso contigue. E solo l’Amore dura e resta e costruisce e vale.
Tutto il mio precedente passa attraverso di lei, attraverso questi tredici anni oramai di solitudine vera, quella solitudine che se radicata in Dio diventa anticipo di paradiso, quella solitudine di Cielo che diviene luce e notte, diventa passato e futuro ma soprattutto è: ora.
E l’adesso è cuore pieno di lei e per lei, è questa mancanza e questa lontananza che danno il senso all'amore, che spiegano l'amore e che dicono che forte è l'amore come la morte perché va oltre, perché lancia oltre la galassia a sconfinare dove la realtà quasi non si tocca più, pur essendo finalmente decisamente estremamente reale e tangibile.
Troppo tardi ho imparato il ricominciare, qualcuno dice irrecuperabile, oramai.
Ma so che se sempre ricomincio nel cuore del Padre, sempre lì la trovo, nel suo disegno che in Cielo solo sanno e io solo forse in terra un poco intuisco. Tutto da dispiegare e risplendere e illuminare. Se e quando lei vorrà.
Tre donne che alfine si sommano e fanno uno, hanno un solo nome e un solo volto. E un solo cuore, quello di Maria: la madre, la sposa, la figlia, il cuore eterno, il Cielo in terra, il paradiso di Dio.
(foto: una delle coccinelle che hanno scelto di svernare in casa mia...)
giovedì 29 settembre 2016
La prima e l'ultima
Arghh! Una data importantissima della mia vita, ci stavo già dentro, e senza accorgermene. Grazie!
Venticinque anni or sono, al termine di una discreta agonia - opera di uomini - mio padre partì per la destinazione finale. E non voleva partire! Una vita dura, e una fine ancor più.
Quando lo accompagnammo in chiesa, ci stava un mare di gente che lo attendeva per strada, la chiesa poi piena. Dissi, come tra me: "Tutta questa gente a festeggiare, papà sarà contento!" venni rimbrottato: "Macché festa: questo è un funerale!"
E oggi lo direi ancor più, e con cognizione di causa aumentata. Quello che ho vissuto io in questi anni, e visto vivere, mi porta inevitabilmente a concludere che si “deve” amare. Amare le persone, diffondere gioia se possibile, donare serenità, un sorriso. Che ci si guadagna sempre, oltretutto. Qualcuna insegnava “Vedere Gesù nell’altro”, ma già il Vangelo era chiaro: “Qualunque cosa fatta al minimo…” e, tanto per rimanere nei pressi di “in-separabili”: qualunque cosa fatta in primis al tuo coniuge, alla creatura di cui hai promesso, per sempre(!) di occuparti, di portarla in paradiso… essì, che questo in ultima analisi è il senso del matrimonio.
Il vento di stasera, superbo e freddo, rammenta molto da vicino quella sera di venticinque anni fa, forse un poco meno gelido. Quando sopraggiunse il tramonto, il cielo era di un blu assoluto, le stelle parevano tangibili, tutti intirizziti ed io col cuore decisamente stravolto.
Adesso ero io, nel senso della storia, il prossimo. Di padre in padre, in fondo ci si passa pure questo testimone. E stavo nel pieno della crisi esistenziale, dell’infinito deserto che qualche anno dopo sarebbe poi terminato, al culmine del dolore - quasi una traumatica caduta da cavallo come Saulo - nello svanire della mia sposa.
Già: continuerò ancora a ringraziarla perché, in questo vortice inarrestabile che mai si cheta, pare mi chieda sempre più di amarla col cuore di Dio. Ovvero: nei miei ovvi limiti, ma proiettato “come se"…
D'altronde al termine, ed eccolo - poco manca, di questo mi si chiederà: dell’amore dato, specie a lei, a colei che ho sposato: per me la prima e l’ultima, nell’ordine di Dio.
(foto mia, Assisi 2016)
sabato 24 settembre 2016
Ho cura
È buffo, molto buffo, ritrovarsi in una sconfinata solitudine dopo decenni che stai solo.
È buffo, molto buffo, tornare qui all’eremo e udire un silenzio agghiacciante, che sa di eterno. Un silenzio calmo, fermo e pur turbinante.
È buffo, molto buffo, la notte ennesima che avanza e sentire di stare solo nell’universo e avere con sé, non visibili ma tangibili, ben cinque ineffabili Realtà. Le più!
È buffo, proprio buffo, sentire il primo vento del nord di nuovo, amato, incuneato nella stretta ripida via in cui hai lasciato il cuore. E udire la nostalgia a mille.
E buffo, proprio buffo, sentirsi chiedere da un vicino della ex casa: “ma adesso fai il turista”?
È buffo, proprio buffo, casualmente accompagnare due amiche a visitare un santuario di Maria proprio il giorno che i destini paiono compiersi.
È buffo, davvero buffo, aver bisogno di piangere forse, e riuscire solo a ridere e sorridere.
È buffo, davvero buffo, riprendere qui a pubblicare, dopo mesi di blocco, per via del vento, del sangue, dell’autunno incipiente.
È buffo, troppo buffo, alla mia età cominciare a capire di non aver capito nulla. Finalmente, di nuovo, si ricomincia.
È bello, molto bello, ricevere telefonate, sms, messaggi whatsapp che ti dicono presenze con te e nei tuoi paraggi nei momenti clou.
È incredibile, quasi impossibile, rendersi conto che cose chieste da bambino si realizzano, per quanto in termini e modi inimmaginabili.
È sorprendente ricevere insulti e calunnie per cose in cui non c’entri, e che nascono da equivoci nella migliore delle ipotesi, e continuare a sorridere ed amare ed andare oltre.
Ho rivisto un amico, carissimo. Mi ha confidato alcune cose di sé, importanti. Mi ha detto, anche, di quanto apprezza quei pochi che hanno cura delle piccole cose (e solo i grandi sanno avere occhi per il piccolo).
I care, diceva don Lorenzo Milani. Ho cura: il contrario del “menefrego”.
Dal cuore, sempre, nasce tutto, e al cuore torna. Pure queste centinaia di amici che ho, sparsi ovunque, e con cui circola sangue vero.
Aiutaci Padre ad avere cura, ad essere I CARE, e a non sapere i menefrego…
(foto mia, Umbria 2016)
È buffo, molto buffo, tornare qui all’eremo e udire un silenzio agghiacciante, che sa di eterno. Un silenzio calmo, fermo e pur turbinante.
È buffo, molto buffo, la notte ennesima che avanza e sentire di stare solo nell’universo e avere con sé, non visibili ma tangibili, ben cinque ineffabili Realtà. Le più!
È buffo, proprio buffo, sentire il primo vento del nord di nuovo, amato, incuneato nella stretta ripida via in cui hai lasciato il cuore. E udire la nostalgia a mille.
E buffo, proprio buffo, sentirsi chiedere da un vicino della ex casa: “ma adesso fai il turista”?
È buffo, proprio buffo, casualmente accompagnare due amiche a visitare un santuario di Maria proprio il giorno che i destini paiono compiersi.
È buffo, davvero buffo, aver bisogno di piangere forse, e riuscire solo a ridere e sorridere.
È buffo, davvero buffo, riprendere qui a pubblicare, dopo mesi di blocco, per via del vento, del sangue, dell’autunno incipiente.
È buffo, troppo buffo, alla mia età cominciare a capire di non aver capito nulla. Finalmente, di nuovo, si ricomincia.
È bello, molto bello, ricevere telefonate, sms, messaggi whatsapp che ti dicono presenze con te e nei tuoi paraggi nei momenti clou.
È incredibile, quasi impossibile, rendersi conto che cose chieste da bambino si realizzano, per quanto in termini e modi inimmaginabili.
È sorprendente ricevere insulti e calunnie per cose in cui non c’entri, e che nascono da equivoci nella migliore delle ipotesi, e continuare a sorridere ed amare ed andare oltre.
Ho rivisto un amico, carissimo. Mi ha confidato alcune cose di sé, importanti. Mi ha detto, anche, di quanto apprezza quei pochi che hanno cura delle piccole cose (e solo i grandi sanno avere occhi per il piccolo).
I care, diceva don Lorenzo Milani. Ho cura: il contrario del “menefrego”.
Dal cuore, sempre, nasce tutto, e al cuore torna. Pure queste centinaia di amici che ho, sparsi ovunque, e con cui circola sangue vero.
Aiutaci Padre ad avere cura, ad essere I CARE, e a non sapere i menefrego…
(foto mia, Umbria 2016)
venerdì 20 maggio 2016
Sposi x sempre
Esco di corsa che sta temporaleggiando. Un maggio anomalo (ma da quanti decenni oramai?). Mi viene di cantare De Andrè sotto la pioggia battente: “Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura…”. Qui ci sta la mia gioventù, in pieno.
A casa cucino, cosce di pollo con patate, in umido. Cerco su youtube questa canzone che ancora mi suona dentro. Poi scorrono altri De Andrè. Troppi ricordi. Ero davvero giovane, in camera oscura da un amico tentavamo di stampare foto in bianco e nero ed ascoltavamo Dè Andrè su cassette. Chi le ricorda? Quelle cose che ti restano nel sangue, i ricordi degli anni giovani. La vita eccola, un soffio veloce. Sono contento di esserci e soprattutto di questa consapevolezza. Certo, è figlia del sangue. Ma onesta, vera, e assolutamente non interscambiabile con qualunque altra esistenza.
Di recente sono andato a Verona, ci stava l’incontro periodico della Fraternità Sposi per sempre. Appuntamento alle 17,30 all’ingresso della stazione di Porta Nuova. Stranamente, non vedo nessuno. Lancio un messaggio sul gruppo whatsapp, ma tutto tace. Chiamo Stefania. Mi dice che sta or ora uscendo dal lavoro. “Ahhhh e quando arrivi, domani?” “Domani? Ma è la settimana prossima!”
Insomma, sono arrivato una settimana prima. Sono figlio della romanità, e per decenni il ritardo mi era norma (a Roma era (è?) quasi impossibile arrivare puntuali agli appuntamenti)! In questi anni ultimi ho imparato ad arrivare persino in anticipo. Ma una settimana prima è davvero troppo.
Non sapevo se piangere o ridere. Alla fine ho riso. Davvero: ci sta di molto peggio. Anche se i miei neuroni (e non solo, temo) avrebbero forse necessità di una qualche massiccia manutenzione.
Ero propenso a non rifare il viaggio a distanza di una settimana. Ma ho dovuto confrontarmi prima con Rosa, poi con Stefania: impossibile dire di no.
Son tornato, ed ho fatto più che bene. Un pezzo di Chiesa giovane e bello. Un mondo nuovo che nasce, un cuore pulsante per la Chiesa e per il Vangelo. Nel vivere questa follia dello “sposi per sempre”, dentro il progetto più ampio di don Renzo Bonetti “Mistero grande” (Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Ef 5, 31-32).
A proposito: per chi vive nella fedeltà il suo matrimonio seppur senza reciprocità - mancando l’altra metà del cielo - in agosto a Foligno ci sarà un convegno di quattro giorni basato su “Amoris Laetitia, 242: Testimoni della fedeltà matrimoniale”.
Qui piove, piove. Notte fonda, oramai. Faber è qui con me ancora, sta cantando tutto il suo repertorio. Grazie. Grazie a lui e a tutti gli uomini che riescono a toccare - e a trasmettere - il Cielo magari senza saperlo. Grazie.
(Foto mia, maggio 2016, san Giovanni Paolo II: "Il futuro dell’umanità dipende dalla famiglia")
venerdì 29 aprile 2016
Tumori...
A volte, ma forse sempre, il tempo torna padrone.
Torna padrone perché, in esso, in questo caso nell’arco di ventiquattr’ore, accadono cose che inevitabilmente arrivano a lavorarti dentro, nel profondo.
Ieri giornata particolare: compleanno di mio padre, virtuale perché da tempo non è più in terra. Poi: funerale di un amico caro, Piero. Un uomo grande, partito in pochi giorni con un tumore appena scoperto e subito operato. Il duomo pieno, come era giusto che fosse. La moglie Paola è incredibile, come sempre. Ha parole di conforto per chiunque va a salutarla. Guai a parlare di condoglianze, in questi casi. Si respira aria di Cielo. Qualcuno mi dice che Piero, che ha sofferto non poco negli ultimi giorni, salutava con un occhietto di intesa. Ci sto, eccomi, sembrava dire. Pronto.
Oggi vado a trovare un altro amico carissimo. Operato ieri per la terza volta per un tumore. Con lui ho molte cose in comune, dall’età alla separazione subìta, all’Abruzzo. Ci prendiamo sempre in giro come fratelli veri, anzi più. Lo trovo seduto, con la morfina. Più che un bronzo di Riace pare un bonzo: cerco di farlo ridere, ma anche volendo non può. Però mi sorride. So che è dura. E le parole non servono. Ridondano.
Mentre sono lì arriva Mario, altro amico un po’ più avanti di noi (in tutti i sensi). E vengo a sapere del suo tumore, anche lui, con cui convive da tempo e che sta lì, fermo. Dice che vive con una bomba ad orologeria dentro. Prima o poi esplode. O forse altro farà prima di questa bomba. Di una serenità disarmante. Siamo in altra dimensione. Leggerezza. Il tempo è fermo.
Penso a mia madre, che sopravvisse poco a papà, anche lei con tumore. E so bene di essere pure io "soggetto ad alto rischio". Ho coscienza piena del mio orologio.
Tra ieri e oggi è in corso uno sconvolgimento, dentro. Esco da una fase difficilissima e mi ritrovo - miracolato - ad avere occhi nuovi. I turbamenti e le ansie di questi tempi recenti prendono luce, trovano un senso.
La certezza del mio errare solito: nei modi, non tanto forse nella sostanza. Essì, so bene che il contenitore può guastare il contenuto. Nella comunicazione sono entrambi importanti, anzi. Ma io continuo da imperterrito figlio del ’68, che brucia la forma per lasciare la sola sostanza.
E inevitabilmente tardi giungo a ricordarmi degli insegnamenti di Paolo, l’apostolo delle genti: se anche avessi tutto e tutto fossi… e non ho la carità? Cembalo sonante!
Tutto dissolto pare, stasera.
"E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare"
...
(Foto mia, Sangro River War Cemetery, aprile 2016)
Torna padrone perché, in esso, in questo caso nell’arco di ventiquattr’ore, accadono cose che inevitabilmente arrivano a lavorarti dentro, nel profondo.
Ieri giornata particolare: compleanno di mio padre, virtuale perché da tempo non è più in terra. Poi: funerale di un amico caro, Piero. Un uomo grande, partito in pochi giorni con un tumore appena scoperto e subito operato. Il duomo pieno, come era giusto che fosse. La moglie Paola è incredibile, come sempre. Ha parole di conforto per chiunque va a salutarla. Guai a parlare di condoglianze, in questi casi. Si respira aria di Cielo. Qualcuno mi dice che Piero, che ha sofferto non poco negli ultimi giorni, salutava con un occhietto di intesa. Ci sto, eccomi, sembrava dire. Pronto.
Oggi vado a trovare un altro amico carissimo. Operato ieri per la terza volta per un tumore. Con lui ho molte cose in comune, dall’età alla separazione subìta, all’Abruzzo. Ci prendiamo sempre in giro come fratelli veri, anzi più. Lo trovo seduto, con la morfina. Più che un bronzo di Riace pare un bonzo: cerco di farlo ridere, ma anche volendo non può. Però mi sorride. So che è dura. E le parole non servono. Ridondano.
Mentre sono lì arriva Mario, altro amico un po’ più avanti di noi (in tutti i sensi). E vengo a sapere del suo tumore, anche lui, con cui convive da tempo e che sta lì, fermo. Dice che vive con una bomba ad orologeria dentro. Prima o poi esplode. O forse altro farà prima di questa bomba. Di una serenità disarmante. Siamo in altra dimensione. Leggerezza. Il tempo è fermo.
Penso a mia madre, che sopravvisse poco a papà, anche lei con tumore. E so bene di essere pure io "soggetto ad alto rischio". Ho coscienza piena del mio orologio.
Tra ieri e oggi è in corso uno sconvolgimento, dentro. Esco da una fase difficilissima e mi ritrovo - miracolato - ad avere occhi nuovi. I turbamenti e le ansie di questi tempi recenti prendono luce, trovano un senso.
La certezza del mio errare solito: nei modi, non tanto forse nella sostanza. Essì, so bene che il contenitore può guastare il contenuto. Nella comunicazione sono entrambi importanti, anzi. Ma io continuo da imperterrito figlio del ’68, che brucia la forma per lasciare la sola sostanza.
E inevitabilmente tardi giungo a ricordarmi degli insegnamenti di Paolo, l’apostolo delle genti: se anche avessi tutto e tutto fossi… e non ho la carità? Cembalo sonante!
Tutto dissolto pare, stasera.
"E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare"
...
(Foto mia, Sangro River War Cemetery, aprile 2016)
giovedì 7 aprile 2016
Dovevo dire
Stamani, in dormiveglia, ho avuto un flash. Mi son ricordato di cose scritte tanti anni fa e che non ho condiviso con voi qui sul blog. Grave!
Era il gennaio 2009, ed ero di ritorno da un Convegno di Separati a Castelgandolfo. Con le ferite freschissime, credo di essere intervenuto più volte, e al ritorno scrissi queste righe, inoltrate poi ad amici che erano presenti.
Domenica scorsa, quando sono intervenuto al Convegno dei Separati, stavo molto elettrico, perché avevo tante cose da dire, da condividere, donare, e invece ho fatto un intervento quasi inutile, rispetto a quanto volevo. Mi sono riascoltato, ed ho ricevuto una bella lezione per il mio orgoglio.
Volevo essere trasparente strumento dell’Eterno, e invece: il mio parlare romanesco, magari simpatico, ma certo impossibile per i traduttori. Che deve evolversi in italiano.
E poi:
Dovevo parlare delle mie notti, di come il silenzio e la solitudine siano strumento di Dio, di come il tempo che corre è quasi Dio stesso, quando permette di innestarsi nella Storia.
Dovevo dire che la Storia supera la fantasia degli uomini.
Dovevo dire che la notte è il momento più traumatico per un abbandonato, specie all'inizio, ma forse peggiora pure. E ora dormo sereno. E la fede mi è implosa nelle notti di abbandono: grazie alla mia sposa.
Dovevo dire che le mie giornate scorrono veloci, con tantissime attività, dal teatro alla cucina al video alla fotografia. E la noia, “pane secondo dell’uomo”, mi è estranea.
Dovevo dire che possiamo aiutarci davvero, che siamo un corpo solo, che il dolore è nulla confronto alla libertà che poi ne nasce.
Dovevo dire che si può vivere nella libertà dal male che si subisce, e anche da quello magari compiuto: la libertà dei figli di Dio, di chi sa di avere un Padre che ti ama comunque.
Dovevo dire che il cuore di Dio contiene i cuori nostri e di tutti coloro che ci hanno abbandonati, seguendo magari sogni bambini, in cerca di se stessi e di gioie impossibili.
Dovevo dire che la felicità è altro da quel che tanti pensano di trovare altrove, nella terra nemica del demonio che annienta.
Dovevo dire che se noi siamo nel dolore, altri stanno forse peggio: chi fa il male, sta male, e certo non trova felicità; e chi fa il bene può stare bene dentro, perché esiste un ordine superiore delle cose, che travalica le nostre miserie.
Dovevo dire che più amo la mia sposa, più ne sono innamorato: una specie di “a chi mi ama mi manifesterò”. E “questo lo fa l’amore”.
Dovevo dire che “la morte si sconta vivendo”, e che magari siamo già quasi in paradiso, dobbiamo solo acquisirne coscienza.
Dovevo dire che l'amore è amare, oltre sé e il proprio dolore, e non: aspettare l'amore altrui.
Dovevo dire che il dolore dell’umanità è il mio, che lacera anche la mia anima: tutti siamo un solo corpo, inscindibile. Ovvero: “ciò che mi fa male è mio”.
Dovevo dire che stiamo vivendo una poesia, lacerante e dolorosa, ma poesia dell'anima, vera, eterna.
Dovevo dire che bisogna coltivare la fede nel disegno di Dio sulla coppia che, in un equilibrio umanamente forse impossibile, certo non muore con una sentenza di tribunale o una distrazione carnale.
Dovevo dire che quel che conta nella vita non è ciò che sente il cuore, ma stare nel cuore del Padre. Ovvero nel suo disegno.
Dovevo dire che il disegno del separato è perdere il progetto del proprio matrimonio “realizzato”, per un progetto nuovo, un amore più grande. Perdere Dio per Dio, essere Maria nel presente dolorante, che vede il demonio vincente. In un equilibrio nuovo, accettare l’inferno che avanza. Let it be. E rimanere fedele.
Dovevo dire che tutti i nostri occhi saturi di lacrime gridano vendetta al cospetto di Dio, la vendetta d'amore di Gesù sul Golgota.
Dovevo dire che l’amore non è Hollywood, ma Gesù che si immola: “questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”, e questo siamo noi per chi è “carne della mia carne”.
Dovevo dire che, comunque sia, tanti nel mondo vivono baratri ben più grandi dei nostri.
Dovevo dire che le nostre voragini, nell’anima, sono solo degli immensi contenitori dell’Amore di Dio, se gli permettiamo di entrare.
Dovevo dire che son cresciuto più in questi due ultimi anni che nei quaranta precedenti.
Dovevo dire che sin da giovane avevo anch’io chiesto “dammi tutti i soli”, e che ora ci sono in pieno, “sole” tra i soli, ad illuminare queste tenebre soffocanti. Sì, siamo soli di solitudine, ma possiamo essere al contempo “soli” che illuminano e scaldano. Coincide.
Dovevo dire che il Corpo mistico esiste, che il nostro morire non è inutile, se innalzati da terra: il motore vero della Storia.
Dovevo dire che non cambierei la mia vita con nessuno al mondo.
Dovevo dire che Dio è Amore, e certo non manda prove superiori alle capacità.
Dovevo dire che senza Dio non è possibile manco la serenità, figurarsi essere felici.
Dovevo dire che ho urlato al cielo, e non si è mosso. È accaduto molto di più, Paolo che si converte.
Dovevo dire che mi son tagliato tutto, casa, telefono, internet, televisione, in un eremo. Solo, concentrato a crescere dentro, senza appoggi.
Dovevo dire che amiche mi ritengono un marziano, raro caso al mondo, e i miei figli e tutti mi premono: “devi trovarti una donna”.
Dovevo dire che il tempo “da soli” che pare sprecato, è tale solo se vissuto senza Dio, che invece eternizza ogni istante.
Dovevo dire che mi sento come coloro che scoperchiarono il tetto per farci passare il paralitico e calarlo alla presenza di Gesù, per farlo guarire. La fede cieca e invadente.
Dovevo dire che uno solo è l'Amore, e il nostro matrimonio cristiano è lì dentro, che Gesù Abbandonato è l'unico bene.
Dovevo dire che a noi più che ad altri Dio sta chiedendo di essere misericordia pura, ovvero il Padre della parabola del figliol prodigo. Ovvero: amare col cuore di Dio.
Dovevo dire che la Carità, quella che eterna dura, “è benigna e tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, tutto ama”.
Dovevo dire che “il mondo passa, e la sua concupiscenza pure, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno”.
Dovevo dire che bisogna giungere a vivere la vita e leggere la Storia con gli occhi di Dio.
Dovevo dire che Dio solo è vero, e che le lusinghe, le sirene che incontriamo ogni giorno sono solo fatuità, sono già svanite. Solo Lui è realtà. Il resto è nulla, “vanità della vanità”.
Queste ed altre cose dovevo dire, che sono la Grazia che sto vivendo in questo tempo, ed ho certo mancato. Potrei pure pensare che non era il momento, non era il caso. Ma invece so che devo pensare che questo mio ennesimo errare altro non è che Lui, ancora, sempre.
Il Dio Abbandonato e bello dei miei sedici anni, sempre Lui.
E allora: un altro importante passo nella salita verso la vetta, un altro motivo per dire, ancor più: “Sei Tu Signore l’unico mio bene, e nel mio errare sempre Ti trovo. Grazie”.
(foto mia, lago Trasimeno, marzo 2016)
Era il gennaio 2009, ed ero di ritorno da un Convegno di Separati a Castelgandolfo. Con le ferite freschissime, credo di essere intervenuto più volte, e al ritorno scrissi queste righe, inoltrate poi ad amici che erano presenti.
Domenica scorsa, quando sono intervenuto al Convegno dei Separati, stavo molto elettrico, perché avevo tante cose da dire, da condividere, donare, e invece ho fatto un intervento quasi inutile, rispetto a quanto volevo. Mi sono riascoltato, ed ho ricevuto una bella lezione per il mio orgoglio.
Volevo essere trasparente strumento dell’Eterno, e invece: il mio parlare romanesco, magari simpatico, ma certo impossibile per i traduttori. Che deve evolversi in italiano.
E poi:
Dovevo parlare delle mie notti, di come il silenzio e la solitudine siano strumento di Dio, di come il tempo che corre è quasi Dio stesso, quando permette di innestarsi nella Storia.
Dovevo dire che la Storia supera la fantasia degli uomini.
Dovevo dire che la notte è il momento più traumatico per un abbandonato, specie all'inizio, ma forse peggiora pure. E ora dormo sereno. E la fede mi è implosa nelle notti di abbandono: grazie alla mia sposa.
Dovevo dire che le mie giornate scorrono veloci, con tantissime attività, dal teatro alla cucina al video alla fotografia. E la noia, “pane secondo dell’uomo”, mi è estranea.
Dovevo dire che possiamo aiutarci davvero, che siamo un corpo solo, che il dolore è nulla confronto alla libertà che poi ne nasce.
Dovevo dire che si può vivere nella libertà dal male che si subisce, e anche da quello magari compiuto: la libertà dei figli di Dio, di chi sa di avere un Padre che ti ama comunque.
Dovevo dire che il cuore di Dio contiene i cuori nostri e di tutti coloro che ci hanno abbandonati, seguendo magari sogni bambini, in cerca di se stessi e di gioie impossibili.
Dovevo dire che la felicità è altro da quel che tanti pensano di trovare altrove, nella terra nemica del demonio che annienta.
Dovevo dire che se noi siamo nel dolore, altri stanno forse peggio: chi fa il male, sta male, e certo non trova felicità; e chi fa il bene può stare bene dentro, perché esiste un ordine superiore delle cose, che travalica le nostre miserie.
Dovevo dire che più amo la mia sposa, più ne sono innamorato: una specie di “a chi mi ama mi manifesterò”. E “questo lo fa l’amore”.
Dovevo dire che “la morte si sconta vivendo”, e che magari siamo già quasi in paradiso, dobbiamo solo acquisirne coscienza.
Dovevo dire che l'amore è amare, oltre sé e il proprio dolore, e non: aspettare l'amore altrui.
Dovevo dire che il dolore dell’umanità è il mio, che lacera anche la mia anima: tutti siamo un solo corpo, inscindibile. Ovvero: “ciò che mi fa male è mio”.
Dovevo dire che stiamo vivendo una poesia, lacerante e dolorosa, ma poesia dell'anima, vera, eterna.
Dovevo dire che bisogna coltivare la fede nel disegno di Dio sulla coppia che, in un equilibrio umanamente forse impossibile, certo non muore con una sentenza di tribunale o una distrazione carnale.
Dovevo dire che quel che conta nella vita non è ciò che sente il cuore, ma stare nel cuore del Padre. Ovvero nel suo disegno.
Dovevo dire che il disegno del separato è perdere il progetto del proprio matrimonio “realizzato”, per un progetto nuovo, un amore più grande. Perdere Dio per Dio, essere Maria nel presente dolorante, che vede il demonio vincente. In un equilibrio nuovo, accettare l’inferno che avanza. Let it be. E rimanere fedele.
Dovevo dire che tutti i nostri occhi saturi di lacrime gridano vendetta al cospetto di Dio, la vendetta d'amore di Gesù sul Golgota.
Dovevo dire che l’amore non è Hollywood, ma Gesù che si immola: “questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”, e questo siamo noi per chi è “carne della mia carne”.
Dovevo dire che, comunque sia, tanti nel mondo vivono baratri ben più grandi dei nostri.
Dovevo dire che le nostre voragini, nell’anima, sono solo degli immensi contenitori dell’Amore di Dio, se gli permettiamo di entrare.
Dovevo dire che son cresciuto più in questi due ultimi anni che nei quaranta precedenti.
Dovevo dire che sin da giovane avevo anch’io chiesto “dammi tutti i soli”, e che ora ci sono in pieno, “sole” tra i soli, ad illuminare queste tenebre soffocanti. Sì, siamo soli di solitudine, ma possiamo essere al contempo “soli” che illuminano e scaldano. Coincide.
Dovevo dire che il Corpo mistico esiste, che il nostro morire non è inutile, se innalzati da terra: il motore vero della Storia.
Dovevo dire che non cambierei la mia vita con nessuno al mondo.
Dovevo dire che Dio è Amore, e certo non manda prove superiori alle capacità.
Dovevo dire che senza Dio non è possibile manco la serenità, figurarsi essere felici.
Dovevo dire che ho urlato al cielo, e non si è mosso. È accaduto molto di più, Paolo che si converte.
Dovevo dire che mi son tagliato tutto, casa, telefono, internet, televisione, in un eremo. Solo, concentrato a crescere dentro, senza appoggi.
Dovevo dire che amiche mi ritengono un marziano, raro caso al mondo, e i miei figli e tutti mi premono: “devi trovarti una donna”.
Dovevo dire che il tempo “da soli” che pare sprecato, è tale solo se vissuto senza Dio, che invece eternizza ogni istante.
Dovevo dire che mi sento come coloro che scoperchiarono il tetto per farci passare il paralitico e calarlo alla presenza di Gesù, per farlo guarire. La fede cieca e invadente.
Dovevo dire che uno solo è l'Amore, e il nostro matrimonio cristiano è lì dentro, che Gesù Abbandonato è l'unico bene.
Dovevo dire che a noi più che ad altri Dio sta chiedendo di essere misericordia pura, ovvero il Padre della parabola del figliol prodigo. Ovvero: amare col cuore di Dio.
Dovevo dire che la Carità, quella che eterna dura, “è benigna e tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, tutto ama”.
Dovevo dire che “il mondo passa, e la sua concupiscenza pure, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno”.
Dovevo dire che bisogna giungere a vivere la vita e leggere la Storia con gli occhi di Dio.
Dovevo dire che Dio solo è vero, e che le lusinghe, le sirene che incontriamo ogni giorno sono solo fatuità, sono già svanite. Solo Lui è realtà. Il resto è nulla, “vanità della vanità”.
Queste ed altre cose dovevo dire, che sono la Grazia che sto vivendo in questo tempo, ed ho certo mancato. Potrei pure pensare che non era il momento, non era il caso. Ma invece so che devo pensare che questo mio ennesimo errare altro non è che Lui, ancora, sempre.
Il Dio Abbandonato e bello dei miei sedici anni, sempre Lui.
E allora: un altro importante passo nella salita verso la vetta, un altro motivo per dire, ancor più: “Sei Tu Signore l’unico mio bene, e nel mio errare sempre Ti trovo. Grazie”.
(foto mia, lago Trasimeno, marzo 2016)
mercoledì 9 marzo 2016
Mai dire mai
Fiori rosa, fiori di pesco…cantava Battisti.
Questa foto è di oggi: il mio pesco bianco, già in fiore. Già stanotte, o a brevissimo, potrebbero i fiori morire, ché la rinascita sta in forte anticipo e le temperature notturne scendono ancora sotto lo zero. E tutto questo dice che la primavera è qui, l’inverno sta andando.Un inverno durissimo e freddo. Non l’inverno reale, meteorologico, che anzi è stato di un caldo anomalo, ma l’inverno mio personale di questi mesi. Credevo di aver lasciato alle spalle gli inverni peggiori, e invece: mai dire mai.
Non mi stupisco, anche se sono stanco. Ma questa la vita, lo sapevo: una scalata continua, incessante, inarrestabile, e certo non vorrei tornare indietro. Sarebbe discesa, ovvio, ma la meta è in alto. Tocca salire e la montagna non è come una vacanza passata su una sdraio sotto un ombrellone d’albergo nel caldo sole ferragostano di nota località balneare.
Sono avvezzo al sacrificio, d’altronde a casa mia l’ho sempre respirato e anzi non saprei vivere di rendita. Ma pure qui: mai dire mai.
Qualcuno mi dice che sto nel mio matrimonio per puntiglio verso mia moglie, e non certo per Dio. Carino, sapere quello che nemmeno io so. Ma ho imparato a fare di ogni ostacolo una pedana di lancio. Ho fatto un esame dei miei pro e dei miei contro. E alfine: ringrazio di cuore.
Certo: ci sono un centinaio almeno di buoni motivi “umani” per stare dentro il mio matrimonio, e ve li risparmio. Però ci sono almeno due centinaia di ottime motivazioni per venirne fuori, girare pagina, trovarsi un’altra donna, rifarsi una vita, ecc, ecc.: come tutti consigliano e fanno.
Facendo una sommatoria tra i meno e i più resta in piedi solo Dio. Che il resto è fumo. E pure qui, certamente: mai dire mai.
E questo matrimonio in cui ancora vivo, e sempre più tale mi pare, checché se ne pensi, è la cosa più importante della mia vita, così come la mia sposa è la persona più importante. Non facile un matrimonio senza reciprocità, in questa solitudine a volte gelida. Ma nessuno mi aveva promesso rose senza spine. E le rose ci sono, e sono pure belle! Il 22 gennaio è nato il terzo nipote, è arrivata una bimba. Tutti dicono che mi somiglia, ma io non so e poi non conta.
Chissà cosa sarà di queste creature, che io partirò, ad un certo punto. E ancora vorrei esserci, e stare nei loro pressi… Sere fa a cena, il nipote “grande”, che a breve compie cinque anni (il mio stesso giorno!)… si parlava della morte, chissà perché, e mi fa: “Nonno, poi tu quando muori vai vicino a Gesù!” Eh già, speriamo. Potrebbe essere che poi magari sto nei pressi ancor più, no? Ci terrei proprio.
Manco da queste pagine da tanto, troppo tempo. Un blocco, presumo salutare, ma comunque non idoneo al portale di un quotidiano web. Mi è stato impossibile chiudere le pur tante pagine iniziate.
Sono cinque anni che sto linkato dal portale di Città Nuova, sono arrivato a 111 post, ho avuto decine di migliaia di visite. A tutti sono grato, dalla mia sposa - motore interiore perpetuo, agli amici della redazione, all’ultimo sconosciuto remoto lettore (a proposito: un grazie agli amici fuori dall’Italia, a tutti, ma in particolare ai più assidui: dagli USA e poi dalla Russia).
Tutto (quasi tutto!) ha un termine. E questo blog, inevitabilmente di nicchia, non può durare nel tempo, così. Assieme al mio Cammino per Santiago de Compostela (ove sogno di tornare, magari l’anno prossimo, nel decennale), è stato una tappa importante del mio vivere e forse deve solo evolversi: in cosa non so. Intanto cessa il link sul portale della rivista. Riprenderò a scrivere, presumo, ma non so quando, né come, né cosa.
Chi vuole può continuare a trovarmi qui > http://in-separabili.blogspot.it/ e a breve sul nascente sito web > www.paoloricci.net.
O comunque scrivermi > inseparati@gmail.com.
Eppoi, devo dirlo: ho lavorato la prima volta dentro la redazione di Città Nuova che avevo 20 anni. Successivamente, ancora, in altri momenti. E chissà cosa ci riserva il futuro… anche in questo: mai dire mai.
Mi piace chiudere questo scorcio di esistenza con un passo de Le città invisibili di Italo Calvino: Marco Polo parla a Kublai Khan:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'Inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui. Cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all'inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio…”
Poche parole che illuminano gli abissi.
(foto mia, Umbria, marzo 2016)
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