Prima domenica dopo Pasqua.
Il Vangelo ripropone il famoso episodio di Tommaso, l’incredulo. Uno fuori dal coro, mentre tutti credono. Ha sempre fatto una pessima figura, a mia memoria.
Un giovane frate ne parla all’omelia. Inquadra tutto da un altro punto di vista. Finalmente qualcosa di nuovo. E di incredibilmente attuale.
I discepoli sono nella paura, chiusi dentro quattro mura, tra di loro. Solo Tommaso manca: è uscito! Andava nel “mondo di fuori”… non aveva paura, stava oltre.
E quando torna, pragmatico, vuole toccare. E tocca il Figlio di Dio risorto. Tocca con mano.
Come non vedere la modernità in Tommaso, l’uomo del ventunesimo secolo? L’uomo che esce dalla sua terra e va, che deve poi toccare con mano e credere per sua esperienza diretta e non per sentito dire?
Mi ci trovo appieno, e ci vedo gente che ben conosco.
Scrivevo del più lungo inverno.
Un inverno più che altro interiore. Ma pienamente nella norma, direi. L'inverno che è una delle stagioni, dell'anno e dell'esistere. L'inverno che non è roba da poco, o da scartare, o da evitare. L’inverno che permette al seme di crescere e generare, al buio e all’umido, sotterrato, dimenticato, invisibile. E soprattutto: impensabile, incomprensibile. La stagione senza cui non esisterebbe la primavera, e poi la fioritura e poi la raccolta dei frutti.
Eh sì, il miracolo che ogni anno si ripete nella natura, incessante. Sotto gli occhi di tutti seppur invisibile. Sarei tentato di citare il Vangelo del chicco di grano. Ma non oso, non so. Però di certo l’inverno si sente, l’ho sentito molto quest’anno, specie in questa fine stagione. Una serie ininterrotta di mazzate in testa. Questo silenzio dello scrivere qui ne è testimonianza. Ma quando hai le energie altrove dedicate, non puoi fare altro che occuparti del vivere del momento presente. Tutte mazzate che riconducono, oggi ne tiro le somme, alla mia scelta di vivere nel mio matrimonio, ancora, e ancor più ogni giorno.
So bene che è poca cosa rispetto ai problemi che l’umanità oggi vive: la solitudine di un matrimonio e, mi si consenta, non solo del mio ma dei tanti - invisibili, impensabili - che nel mondo abbondano. Ma è la mia vita, la sola vita che ho, che posso e debbo vivere fino in fondo davanti a Dio. Nella prospettiva direi dell’eterno e non del contingente di oggi. Perché altrimenti sarebbe inevitabile cadere nel carpe diem. Cosa che ho già in qualche modo vissuto e mi ha lasciato decisamente, amaramente, insoddisfatto.
Non ricordo se ne ho già qui scritto, di certo ne ho parlato tante volte.
Il giorno del matrimonio era con noi un amico carissimo che stava in carrozzella da undici anni, a seguito di un incidente stradale. Guardando lui ebbi un pensiero d’allarme quasi: e se domani questa creatura che sto sposando ha un incidente pure lei? Sono in grado di rimanerle accanto, nel “per sempre” che, forse pure incoscientemente, sto promettendo, davanti a Dio e davanti agli uomini? Dissi il mio sì in una consapevolezza nuova.
Poi non ci sono state malattie, incidenti stradali, ma qualcosa forse di molto peggio - e lo dico con molto rispetto del dolore “fisico” di tanti, che un po’ conosco pure quello. Il peggio è la separazione, lo strazio di questo rapporto interrotto. Il sangue che sgorga dal “un solo corpo” sventrato, dalla solitudine del cuore, dal tempo che inesorabile scorre mentre non esiste “reciprocità” coniugale.
Ma vorrei dire: e se la mia sposa avesse un tumore, potrei abbandonarla? Se stesse in carrozzella, fuggirei altrove?
Sono stato recentemente redarguito - presumo a causa di un equivoco - perché, mi si rimprovera, Dio non vuole il dolore. Beh, è evidente, lo so molto bene. E certo ne farei volentieri a meno. Dio è amore: non è una novità, la prima lettera di Giovanni lo proclamava chiaro già venti secoli or sono. Il Dio cristiano è Trino, solo amore in circolo, reciprocità. E il dolore nasce sempre fuori dalla “volontà di Dio”. Nasce sempre dagli errori umani, che in cattiva, e persino in buona fede, generano e propagano sangue. Ne so qualcosa, sia in termini attivi che passivi. E so di parlare relativo: la mia esperienza. Ma come non dire della forza generatrice del dolore, della forza redentrice del sangue? Certo, dipende da come si vive, dipende dal vissuto di ciascuno, i fattori in ballo sono tanti e non si può assolutizzare. Nemmeno Dio lo fa. E la parabola dei talenti pare dirlo a chiare lettere.
Però esiste un mondo che è oltre il tangibile, come direbbe il Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Come la vita del seme sottoterra, al buio, sconosciuto, silente, dimenticato...
(foto mia - Umbria 2011)