Qualcuno di voi che mi legge – forse dovrei dire con Manzoni, “i miei venticinque lettori”! - si sarà chiesto che fine ho fatto. Ancora non sono finito, anche se tutte le sere sono sfinito.
Ho scritto tanto in questa mia latenza, ma poi manca il momento clou della chiusura. Dedito ad altro, diverso da questo blog, ma forse importante.
Quando sei giovane – esperienza mia e di tanti – offri a Dio la tua vita, sei pronto a tutto, generoso. Hai davanti solo i massimi sistemi, non immagini le tante pochezze che ti toccheranno, le miserie dei momenti inutili – se non dannosi – in cui inevitabilmente vivrai. Hai solo il cuore grande, dilatato sul sogno. E il sogno di Dio è il più grande, è l’impossibile.
E oggi, con i sessant’anni che non mi sembrano veri, col sentirmi bimbo coi miei nipotini, più pazzariello di loro, arrivo a dire che mai avrei potuto minimamente immaginare che Dio mi avrebbe chiesto sino a questo punto. È tanto, troppo, non sono all’altezza, cosa c’entro io che mi sarei contentato di una modesta esistenza?
Eppure, guardo indietro e vedo una scia di luce che mi ha condotto. A volte pare interrotta. Pare, ma poi riprende, e sembra ancor più lucente.
Ho passato una estate bella. Il culmine: la fuggevole visita di una coppia di antichi e più che carissimi amici, nel pieno del ferragosto. Non ti senti e non ti vedi per decenni… e poi ti ritrovi e stai in cielo. Il tempo pare fermo.
Poi i festeggiamenti dei trent’anni di mia figlia (ah, come invece è vero che il tempo passa…. meno male che è galantuomo!).
Poi tanto altro, stare male un intero week end con coliche e febbre in piena assoluta solitudine, e col frigorifero praticamente vuoto. Ma qualcosa ci si inventa sempre, e soprattutto: tutto diviene occasione per rimettere il cuore a posto, ricentrare tutto sul solo che davvero conta.
E come non arrivare a dirmi, e quindi dire, che la mia esistenza - che ripeto: non cambierei con nessuno al mondo - in tutti gli accadimenti pur impensabili e dolorosi, ha un evento centrale, da cui tutto poi discende e promana.
Ed è quel fatidico giorno del matrimonio, in cui ho messo la mia esistenza nelle mani della mia sposa. Una sconosciuta, a cui affidavo il mio futuro, una creatura tutta da scoprire che diveniva la presenza primaria di Dio nella mia vita, la presenza portante, quella che mi avrebbe dato la gioia e il dolore, la salute e la malattia. Il matrimonio cristiano, vedo oggi, in cui lei diviene Dio, il "mio Dio" su misura per me. Nulla capisco di teologia, ma direi che questo è il Sacramento, questo porta a vivere già “come in Cielo così in terra”.
Come l’evento centrale della storia dell’umanità, vista da cristiano, storia cristocentrica, quando Cristo sposa l’umanità venendo in terra.
Sono martoriato da inviti - pressanti, intelligenti, amorevoli e persino silenti - a dimenticare la mia sposa. Qualcuno mi dice che soffro troppo. Direi di no, non troppo, ma nemmeno poco: soffro il giusto. E certo so di essere sempre più fragile. Perché il tempo passa, l’estate bella è già finita e nell’aria l’autunno preme potente.
Se non fosse che la vita è una ed ha un senso solo vissuta facendo le cose giuste, almeno quel poco possibile coi miei tanti limiti, sarebbe da fare come vedo in alcune situazioni. Comportamenti da fine Impero Romano, quando si presagivano le invasioni e si viveva dediti ad un “carpe diem” senza più dignità.
Debbo dire che il peso del tempo che passa, pure amplificato dalla solitudine, in qualche modo mi è leggero.
Perché il dolore cresce, insieme alla stanchezza, giorno dopo giorno.
Ma, onestamente, direi che cresce anche altro. Che è poi quel che più conta.
(foto mia, Umbria 2012)